Cogito Ego Sum

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Viandante sul mare di nebbia - Caspar David Friedrich, 1818

Penso dunque sono. Ma in realtà sarebbe meglio dire che penso e, al massimo, penso di essere. Tra il materialismo più bieco e le distopie cognitive più sconvolgenti, c’è solo una certezza: non ci sono certezze. Siamo macchine reali, individuali e autonome, o è tutto un sogno nel sogno, frutto di una illusione totalmente immaginaria ma perfettamente convincente? Per la seconda opzione non serve un disegno cosmico o un programmatore onnipotente, ma basta prendere un po’ sul serio la neurobiologia: una valanga di stimoli raggiunge il nostro corpo sotto forma di energia, le interfacce fisiologiche dei nostri sensi le trasformano in segnale nervoso, il cervello integra il tutto e genera uno scenario, un personaggio, e una storia. Un girasole non è giallo, non è nemmeno colorato, è il nostro cervello che associa lo stimolo di una certa lunghezza d’onda a una percezione di “colore”, e dipinge il girasole di giallo. L’esempio è semplice ma di grande impatto (la maggior parte delle persone non hanno mai considerato che la realtà non è a colori, ma è il nostro sistema nervoso che la rappresenta così), e si può estendere a tutte le nostre percezioni, ma è ovviamente un esempio molto specifico, e le cose si complicano abbastanza quando passiamo a concetti più sfocati come la coscienza o la percezione del sé.

Una scossa forte ai pilastri dell’individualismo arriva dai concetti di impermanenza e interconnessione, sviluppati un po’ da tutte le filosofie mondiali ma particolarmente cari al buddismo. Il primo principio si riferisce al fatto che tutto cambia, anche se continuamente ci afferriamo alla assurda speranza di una stabilità, di una continuità, di una consistenza, di una realtà unica vera e giusta. Tutto invece cambia costantemente, nulla rimane uguale a se stesso, è il principio della vita, della morte, e della termodinamica. Non ci bagniamo mai nello stesso fiume, ma nemmeno il fiume può bagnare due volte lo stesso corpo. Il secondo principio ci ricorda che la frontiera della nostra pelle è convenzionale: materia e energia non hanno confini ne padroni, e viaggiano continuamente da un elemento a un altro di un sistema che va ben oltre lo spazio che occupiamo in questo momento, o che occuperemo durante la nostra vita. Niente di nuovo per chi conosce come funziona l’ecologia. Come individui, siamo solo cellule di un sistema molto più complesso, che hanno bisogno di tutti gli altri elementi per poter, perlomeno, esistere. E incluso per poter pensare. Questi due principi annientano qualsiasi tentativo di stabilire una autonomia del nostro essere o della nostra individualità, tanto nel tempo (impermanenza) come nello spazio (interconnessione). Se a questo aggiungiamo la prospettiva neurobiologica di cui sopra, dove il mondo che conosciamo non è altro che un modello neuronale, non c’è ritorno: pillola rossa. E così scopriamo che non siamo il personaggio della nostra storia, ma solo un suo lettore.

Ma allora chi è il personaggio? Il personaggio è un insieme di ricordi e aspettative, desideri e paure, preconcetti e convinzioni, che il nostro sistema nervoso costruisce e associa a un corpo, e che si chiama ego. Tutte queste caratteristiche, fisiche ed emozionali, si inseriscono in una progressione temporale basata su proiezioni che chiamiamo passato e futuro, simulazioni virtuali principalmente basate su immagini e parole, e così si genera una storia. Noi “siamo” solo nel presente, ma le nostre proiezioni creano una sequenza immaginata, che ci dà una sensazione di continuità: il mio corpo e le mie emozioni, in una sequenza cronologica. Il personaggio di questo film si nutre delle risorse neurali per creare la percezione di una individualità e continuità di se stesso, nello spazio e nel tempo. E’ un prodotto automatico, quindi in genere non siamo coscienti della sua formazione, e ci lasciamo andare, facendoci proiettare inconsciamente in questa costruzione fatta di emozioni e pensieri. L’assioma “Io sono così” si sviluppa con le condizioni di un pilota automatico, con tutte le sue etichette e i suoi pregiudizi.

Ovviamente non ci sono molte alternative, abbiamo bisogno di questo personaggio (o per lo meno di un personaggio) per poter gestire (e goderci) l’unica vita che abbiamo. Ma le difficoltà arrivano quando questo personaggio non ci conviene, quando ci dà problemi, o quando non ci piace. Il che succede, in un grado più o meno estremo o in momenti particolari della nostra vita, con estrema frequenza. Le conseguenze vanno dall’insoddisfazione cronica alla depressione, dallo stress all’agonia, dall’infelicità alla tristezza, dalla disperazione alla noia. In poche parole, il personaggio finisce per esprimere una sofferenza ontologica del genere umano, il dramma esistenziale di tutti quei poeti e filosofi che cantano il dolor del vivere, il nulla di chi arriva, prima o poi, a un punto troppo vuoto della propria esistenza, e incomincia a farsi domande che avrebbe dovuto cominciare a farsi molto prima. Ed è chiaro che se ci identifichiamo nel personaggio non c’è rimedio: ci è toccato questo, e siamo condannati a tollerarlo, o magari a farci a botte tutta una vita. Manco a dirlo, le conseguenze non si pagano solo a livello individuale, ma in genere poi si fanno pagare a tutti quelli che capitano a tiro. La alternativa: ricordarsi che è solo un personaggio, che è il mio personaggio, e che quindi se non mi piace lo cambio subito.

L’ego è un prodotto automatico, e quindi la prima cosa da fare quando comincia a dare problemi è proprio uscire dall’automatismo, addestrando attenzione, coscienza, e presenza. Separando le percezioni dalle sensazioni, le sensazioni dalle emozioni, le emozioni dai pensieri. Pillola rossa. Separare i componenti per poterli osservare e riconoscere, e quindi, alla fine, poter decidere. Poter decidere davvero, senza la voce del personaggio che ti dice cosa fare. Senza gli istinti che ti fanno decidere in base a secrezioni biochimiche, selezionate per far trionfare la specie a scapito della felicità dell’individuo, manipolandoti con neurotrasmettitori e ormoni che ti fanno credere a bisogni che in realtà non hai. Senza le pressioni sociali e culturali, che generano speranze, aspettative e necessità che non sono le tue, e che la maggior parte delle volte sono selvaggiamente determinate dal contesto economico, politico o religioso, tre sistemi che campano precisamente fomentando paure, insicurezze, e tante altre debolezze umane che hanno radici incredibilmente profonde.

Qualcuno arriva a capire che questa transizione è difficile e complicata, ma l’alternativa è davvero molto peggio, e inizia un percorso che cerca nuovi orizzonti, sapendo che, comunque, non ci saranno mete. Il lettore della nostra storia si converte allora nel suo scrittore, o perlomeno nel responsabile del casting. Per entrare in questa fase non sono necessarie abilità specifiche o requisiti speciali, eccetto uno: la volontà. Qualcuno invece farà finta di niente, guardando da un’altra parte e consegnando la propria vita all’esecuzione passiva delle reazioni automatiche e delle emozioni convulse, riservandosi il diritto di lamentarsi per gli anni a venire. E infine qualcuno non si accorgerà di nulla e continuerà, nel bene e nel male, a pensare che i girasoli sono effettivamente gialli, che gli altri sono la causa di tutti i suoi problemi, o che un centro commerciale è un buon posto per passare un pomeriggio. Nel primo caso, evidentemente, bisogna accettare di separarsi da un personaggio che ci ha accompagnati per tanto tempo. Siamo il frutto di aspettative, di speranze, di conflitti e di certezze che hanno determinato non solo le nostre emozioni, ma anche i nostri interessi, le nostre preferenze, e le nostre magnifiche ossessioni, molte delle quali hanno rappresentato, sempre nel bene e nel male, la fonte delle nostre priorità, e delle nostre motivazioni. Dobbiamo quindi essere pronti a scoprire che, nella tana del Bianconiglio, alcune di quelle motivazioni non hanno più senso, ed è arrivato il momento di lasciarle andare. E per far questo bisogna imparare a vivere il cambiamento non come una perdita, ma come una opportunità.

Gli stati d’animo

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Gli stati d’animo sono una strana mescolanza di emozioni e di pensieri, che caratterizzano la nostra vita, minuto per minuto, giorno dopo giorno, anno per anno. Sono “il battito cardiaco che rivela il nostro vincolo col mondo”. Stabiliscono come ci sentiamo, come viviamo il presente, come ricordiamo il passato, e come immaginiamo il futuro. Sono causa e conseguenza del nostro benestare, o della sua assenza. È quindi apparentemente assurdo (e folle) che la nostra società, la nostra cultura, o il nostro sistema educativo, non ci insegnino a capirli e a conoscerli, per poter essere più liberi di poter gestire in prima persona la qualità della nostra unica vita. Differentemente dalle emozioni o dai pensieri che li generano, gli stati d’animo non sono associati a reazioni energiche e puntuali, ma piuttosto a risposte sottili e prolungate, un umore di fondo, spesso confuso o nascosto, e per questo più difficile da identificare o da interpretare. Per la stessa ragione sono anche più potenti e decisivi delle emozioni o dei pensieri stessi, perché lavorano lentamente, sotto sotto, per ore, mesi o anni, scolpendo a fondo il nostro carattere, e il nucleo vitale della nostra esistenza. Inoltre sono il frutto di combinazioni complesse di sensazioni e sentimenti. Di fatto, le emozioni sono spesso positive o negative, mentre gli stati d’animo posso avere entrambe le caratteristiche, il ché aumenta sensibilmente la confusione. Nel 2009, Christophe André pubblica un libro incredibile dedicato agli stati d’animo, per farceli conoscere, e farci scoprire come osservarli, come interagire con questo nostro sentire, e come creare una buona relazione tra il nostro ego e i suoi movimenti profondi. Prima ce li presenta, poi va direttamente al sodo affrontando quelli problematici (questa parte centrale è forse quella più densa, più bella, più diretta, più sincera, più spiazzante), ci parla quindi del loro equilibrio, di come possono generare calma e energia, di come regolarli. Per finire, come no, una prospettiva generale ma efficiente sull’attenzione e sulla meditazione, e un lieto fine: felicità e saggezza.

Differentemente da molti altri suoi libri, questo non è ne breve ne facile. E’ un libro diretto, particolarmente sincero, e soprattutto denso. Ogni paragrafo c’è da rimanere a occhi aperti guardando fuori dalla finestra, per poi, armati di volontà e del debito coraggio, tornare a leggerlo un’altra volta. Come nelle Zone Erronee di Wayne Dyer, la cosa più probabile è che tutti si rispecchino, in certa misura, in tutte le sensazioni, circostanze, considerazioni e conclusioni che lui descrive con una precisione chirurgica e con una incredibile lucidità umanistica. Il punto è quella “certa misura”, che sarà per ognuno una combinazione personale e unica, in cui ciascuno potrà cercare di capire quali sono gli aspetti su cui deve lavorare di più, sempre e quando voglia migliorare la qualità della propria vita e il benessere delle persone con cui condivide l’esistenza. In questo senso, siamo sinceri, il lavoro da fare sarà sempre molto, troppo, per cui prima si comincia meglio è. Si perché da un lato, come abbiamo detto, la nostra società fino ad ora non ha dato nessuna importanza allo sviluppo personale, anzi, ha generato un sistema economico precisamente fondato sul degrado emozionale e cognitivo, di cui si nutre e che, a sua volta, nutre, per garantire l’introito sulla base di una scellerata e colpevole depredazione psicologica. Allo stesso tempo, coltivare le proprie capacità cognitive è un processo continuo e senza fine, che richiede volontà e dedicazione. Niente di nuovo, perché esattamente la stessa condizione la troviamo nello sport, nell’alimentazione, e in generale in qualsiasi aspetto della salute personale, dove non possiamo pretendere di raggiungere un equilibrio sano con uno sforzo breve e saltuario, ma dobbiamo invece introdurre cambiamenti sostanziali nei nostri costumi  quotidiani per stabilire una forma di vita più adeguata ai nostri sistemi biologici e mentali. E attenzione, qui non si parla di fare grandi rinunce, ma solo di scoprire quali sono le nostre vere necessità, e di poter quindi agire senza sforzo (o quasi) verso un maggior benessere. Ma, come sempre, prima di poter agire bisogna saper riconoscere, saper osservare, saper prestare attenzione, ben oltre i limiti tossici dei condizionamenti biologici, sociali e culturali che sostengono, molte volte senza che ce ne rendiamo conto, il nostro modo di essere, di sentire, e di pensare.

Tutto questo, sfortunatamente, con un’altra copertina orribile della solita casa editrice (la versione spagnola è decisamente più elegante). Anche il titolo, non capisco proprio perché, l’hanno cambiato per uno apparentemente meno adeguato. La qualità della traduzione linguistica, come sempre, non la conosco. L’originale, per chi vuole o può, è in francese: Les états d’âme: un apprentissage de la sérénité.

Ciao Professor Argano!

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Mi sono iscritto a Biologia nel 1991, senza nessun obiettivo preciso e con tantissima curiosità, e l’unica certezza che avevo era l’intenzione, limpida e serena, di studiare zoologia. Finalmente, la zoologia. Emozione, attesa, e, appunto, quella sana curiosità, aperta e sincera, dello “stiamo a vedere che succede”. Quel benessere contemplativo, rilassato e felice, della mente del principiante. Sapevo di non poter aspettarmi nulla, era inutile farsi previsioni basate su una passione che, fino ad allora, si era nutrita solo di divulgazione da edicola e sensazioni indefinite, per quanto motivate e consistenti. Saper di non sapere, e quindi, semplicemente, godersi la scoperta. Non potevo sapere infatti che, di tutti quegli animali che c’erano in giro, alla fine l’interesse ecologico ed evolutivo non sarebbe caduto sui pelosi mammiferi dei tanti film, libri e documentari che avevo visto, ma sui protozoi, sugli artropodi,  sulle tartarughe, o sulle invisibili lucertole dei nostri boschi. Non potevo nemmeno immaginare che poi, con gli anni, avrei cominciato a interessarmi non tanto all’ecologia quanto invece alla morfologia, alle ossa, ai crani, e ai primati. E, alla fine, al primate umano, alla sua evoluzione, e all’evoluzione del suo cervello. Sorprese da la vita. E tra le tante cose che non potevo immaginarmi, come zoologo imberbe, c’era anche il fatto che, ad aspettarmi nell’Aula Pasquini della sede di Zoologia de La Sapienza, ci sarebbe stato Roberto Argano. Magia. La biologia mi dedicò, nel mio secondo anno di corso, un eccezionale benvenuto. Un abbraccio di quelli che creano un vincolo definitivo. Tra le luci soffuse e gli aromi tossici e romantici della formaldeide, il viaggio, la scoperta, lo stupore. Ogni nuovo animale veniva presentato come “il più bello di tutti”, ed era vero, era il più bello, perché tutti erano belli, tutti erano i più belli, i più affascinanti, i più misteriosi, i più incredibili. In ogni goccia d’acqua c’era tutto il mondo, c’era tutto il mistero del mondo, e c’era tutto lo stupore del mondo. E c’erano emozioni, racconti, viaggi, aneddoti, le leggende impossibili e quelle invece che sono addirittura probabili, le impensabili soluzioni dell’anatomia e le imprevedibili combinazioni dei sistemi ecologici. La magica normalità della vita. E Argano che te la racconta, come se fosse la cosa più incredibile e fantastica del mondo, perché, di fatto, è la cosa più incredibile e fantastica del mondo.

Quando recentemente gli hanno domandato perché iscriversi a Biologia, Roberto ha risposto:

Beh, c’è scritto anche su Wikipedia: la Biologia è la scienza che studia tutto ciò che riguarda la vita: a partire dagli organismi più immediatamente visibili, piante, animali, funghi fino a scendere giù giù agli onnipresenti e onnipotenti batteri e archea e virus e poi a risalire su su da questi ultimi pulviscoli genetici alle interazioni infinite tra tutte le creature, interazioni attuali (le mille sfaccettature delle ecologie) o storiche (evoluzione). Passare cinque anni all’Università (compreso un biennio di specializzazione) a studiare Biologia significa metter fuori la testa dalla quotidiana fanghiglia dei luoghi comuni. Significa acquisire concetti e linguaggi relativi ad un vero universo di fatti e di idee portati alla luce della nostra comprensione da migliaia di persone che hanno trascorso l’esistenza nei laboratori o comunque lavorando con gli organismi. Come può non interessarti? Per fare che, poi? Si può fare di tutto, dipende dalla qualità di competenza acquisita nel settore prescelto: puoi finire in un laboratorio a esplorare molecole o cellule, progettare farmaci, garantire la qualità degli alimenti, inserirti nell’esercito che si batte per la salvaguardia del pianeta con qualche strumento in più di una gratuita passione, esplorare il mondo per determinare lo stato della biodiversità da cui dipendiamo, trasmettere le conoscenze acquisite sull’armonia e bellezza della vita attraverso la scuola e i musei, infiniti sono i campi in cui si può operare. Certo, lavoro oggi ce n’è poco, non quanto sarebbe bello e necessario, ma nessuno sa come sarà fra cinque anni. Tu sai che l’unica speranza di avere una vita felice, in cui siano soddisfatte le tue individuali esigenze intellettuali e professionali, è provarci con tutta l’anima: se esiste qualcuno che fa quello che tu vorresti fare perché tu no? E, almeno per cinque anni, dedicati al piacere di vivere, nei limiti del possibile, come vorresti. Tieni comunque serenamente presente che iscriversi all’Università è facoltativo. Se non rientra nei tuoi interessi condurre una vita arricchita da un po’ di sale di conoscenza (fatti non foste…) non ti iscrivere, senza laurea si vive benissimo.

Il corso di Roberto era un viaggio profondo nella vita, nello stupore della vita, talmente profondo che, dopo due mesi scarsi, lo abbandonai. Come matricole, avevamo sul gobbone l’ombra delle matematiche, delle chimiche e delle fisiche propedeutiche, e decisi che non potevo dedicarmi alla zoologia – e soprattutto alla zoologia di Roberto Argano – avendo la testa occupata da quelle incombenze amministrative (nel mio caso, eccezion fatta per la matematica, gli altri corsi erano inoltre tremendamente appesantiti da docenti di un pessimo livello, didattico e umano). Lasciai il corso, per tornare un anno dopo a cose fatte, e potermi dedicare solamente a seguire Roberto nei meandri della biologia animale.

Da allora sono passati trent’anni. Trent’anni di zoologia e di vita. Da professore a mentore, da mentore ad amico. Una amicizia che non ha mai cambiato il fatto che Roberto, comunque, era e sempre sarà il Professor Argano. O, semplicemente e universalmente, Argano. Che fosse per questioni accademiche o scientifiche, per un consiglio o anche solo per prendersi un caffè, entrare nell’ufficio di Argano è sempre stato un momento importante, in un certo modo un rito, il momento di andare a riunirsi nel tempio, fermare per un momento il passo del tempo e prendersi una pausa. Lui stava lì, tra mappe e riviste, isopodi e fotografie, pronto a raccontarti un’altra storia, e un altro punto di vista. Andavi a cercarlo e gli raccontavi dei tuoi dubbi o di una qualche tua difficoltà, che fosse personale, professionale o tassonomica, sapendo che non ti avrebbe mai dato una risposta, ma ti avrebbe permesso di capire molto meglio la domanda. E ci riusciva sempre.

Adesso il Professor Argano se ne è andato, senza troppi preavvisi. Ecco qui un bel ricordo, sul blog di Vincenzo Vomero. Roberto è stato, secondo me, un gigante del suo tempo. E, in quel suo tempo, un esempio, un riferimento, e una fonte costante di motivazione. Nel 2010 iniziammo a pubblicare, con alcuni amici, un blog su zoologia e biologia, un blog che durò circa cinque anni, e che iniziò proprio con una intervista a Roberto sullo stato dell’arte della zoologia, tanto a livello scientifico come accademico. Nel passaggio del millennio era cambiata non solo la disciplina, ma anche l’università, le priorità, gli obiettivi, le dinamiche economiche e sociali. Nelle transizioni veloci, che siano più o meno locali, è difficile fare un bilancio cosciente dei rischi e dei vantaggi, di quello che si guadagna e di quello che si perde. Ma la percezione del cambiamento è comunque profonda e, già in quegli anni, la zoologia e la scienza in generale avevano poco a che fare con tutto quello che avevo conosciuto io come studente di biologia, e come studente di Argano. Impermanenza. E, tra il bene e il male, un po’ di nostalgia, per un passato a cui non siamo mai appartenuti, e per un presente a cui non siamo sicuri di poter appartenere. Resta, per quel passato, una sincera gratitudine. Nel bene e nel male, quel passato è la nostra storia, che ci ha resi quel che siamo, mentre noi ne determinavamo quel che, alla fine, è stato. Grazie, Professor Argano, è stato un vero piacere, e credo un privilegio, aver potuto condividere con te questa storia, e lo squisito stupore per l’incredibile spettacolo della vita.

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Mei - Argano

[Disegno di Maurizio Mei]

Meditazione, antropologia e cognizione

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Meditazione e antropologia 2023_banner

Con la parola meditazione si fa riferimento a una serie di pratiche che implicano un allenamento cognitivo intenzionale, deliberato, orientato all’osservazione, al conoscimento e allo sviluppo dei propri processi mentali. Anche se l’esperienza meditativa è spesso utilizzata in un contesto spirituale, la meditazione (soprattutto la meditazione mindfulness) è in realtà una pratica laica, che si basa essenzialmente sull’attenzione cosciente e volontaria al momento presente e al proprio corpo. Una volta integrata nella vita quotidiana, la meditazione trascende la pratica, e diventa parte di una prospettiva più amplia, che conduce naturalmente verso una forma più integrata e cosciente di essere, di sentire, e di vivere. Ci sono almeno due raggruppamenti basici delle pratiche meditative che, anche se forse non hanno un confine netto e definito, può essere comunque utile distinguere. Il primo, Samatha, comprende tecniche e principi per sviluppare attenzione e percezione, capacità di osservazione, presenza e accettazione, rilasciare le tensioni, e diminuire le fluttuazioni erratiche della mente, con le loro inevitabili conseguenze fisiche ed emozionali. Il secondo, Vipassana, permette di indagare il sistema mentale a livello introspettivo, sviluppando qualità e condizioni che sono fondamentali per il benessere personale e collettivo. In teoria tra queste due modalità c’è una relazione propedeutica: non è consigliabile mettersi a fare introspezione se uno non è prima capace di osservare e mantenere in un certo equilibrio i propri processi mentali. In entrambi i casi è comunque fondamentale un gioco integrato tra attenzione e memoria. A livello più tecnico, le pratiche meditative sono state catalogate in tre gruppi: quelle basate sull’attenzione, quelle finalizzate a ridurre pensieri e convinzioni conflittuali o dannose (decostruttive), e quelle orientate a sviluppare qualità utili e positive (costruttive). L’attenzione è comunque un fattore trasversale, sia essa attiva o ricettiva, focalizzata su uno stimolo o aperta a tutto l’orizzonte percettivo. Fondamentalmente, la meditazione è una allenamento attenzionale. Una attenzione che ha rappresentato una chiave cruciale nell’evoluzione del genere umano, arrivando a poter essere, se opportunamente allenata, intenzionale, sostenuta, e cosciente.

Le tecniche di meditazione, avvallate da mezzo secolo di ricerca scientifica, sono ad oggi utilizzate nell’ambito della salute per migliorare o risolvere problemi associati tanto allo stress psicologico come al dolore fisico. Ma, in realtà, la pratica meditativa è parte di una igiene mentale che, come quella fisica (l’alimentazione, lo sport, lavarsi i denti o farsi una doccia), dovrebbe far parte delle nostre priorità quotidiane. Di fatto, l’evidenza suggerisce che gli effetti, che siano biologici, psicologici o culturali, sono in genere proporzionali alla pratica, il che lascia nelle mani di ognuno di noi la decisione di quanto “esercizio” abbiamo bisogno per portare la nostra esistenza a una condizione di benessere almeno sufficiente per poter goderci l’unica vita che abbiamo.

I giorni 4 e 5 di dicembre (2023) ho organizzato a Roma un simposio dal titolo Meditazione, Antropologia e Cognizione, per l’Istituto Italiano di Antropologia. L’incontro, di stampo divulgativo e aperto al pubblico, si terrà nel Museo Civico di Zoologia, e include una serie di conferenze tenute da Anna Borghi, Antonino Raffone, Fabio Giommi, Giuseppe Pagnoni, Luca Simione, Roberto Ferrari, e Stefano Poletti. Come indica il titolo stesso del simposio, le conferenze presentano diverse prospettive della meditazione che integrano aspetti antropologici e cognitivi. Sono previste inoltre due sessioni di pratica formale. Ecco il programma:

Meditazione e antropologia 2023

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Potete incontrare qui una lista dei miei post che parlano di meditazione e mindfulness, e un link a Nirakara, l’istituto di meditazione e neuroscienza con cui collaboro a Madrid.

Biblioklastika

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Acqua Alta (Venezia)

Recentemente ho visitato un nuovo eccellente centro multidisciplinare di neuroscienza: le infrastrutture sono incredibili ma … non c’è biblioteca. Nel disegno architettonico del nuovo edificio, non è stata proprio nemmeno considerata. Ad oggi la scienza campa di pubblicazioni digitali, i libri non servono, senza contare che, con la quantità di ricerca che produciamo ogni giorno, un libro, dopo quattro o cinque anni, già non è più aggiornato. Nella stessa città, un giorno vedo una coda di centinaia di metri, che girava intorno a un edificio. Tutti giovani. Mi spiegano che l’università locale chiude la sua biblioteca, e … regala tutti i suoi libri! I bibliofili erano in attesa di un turno. L’istituto dove lavoro è invece nato nei primi anni del nuovo millennio, in un momento digitalmente in transizione, ed ha una bella biblioteca. Che però è abbastanza vuota, e da diversi anni ha eliminato la possibilità di acquisire nuovi testi, perché tutti i libri vengono pubblicati in digitale, e fanno parte di pacchetti di abbonamenti multinazionali che la maggior parte degli enti di ricerca rinnovano ogni anno. La bibliotecaria, nel nostro caso come in molti altri, è stata riconvertita in segretaria che si occupa di bibliometria (calcoli di successo editoriale di riviste e autori), e consulente alle piattaforme digitali di consultazione bibliografica. Un amico mi racconta invece che, nel suo dipartimento di antropologia, il bibliotecario andrà in pensione tra due anni, si è deciso di non sostituirlo, e si stanno facendo riunioni per decidere che fare con i libri. Gli antropologi che lavorano con la biologia non vedono la necessità di spendere i soldi (che sono sempre limitati) in una risorsa come questa, mentre quelli che lavorano con i campi umanistici entrano in fibrillazione solo pensando a la possibilità di una università senza libri.

È chiaro che la biblioteca è ogni giorno di più una risorsa associata agli archivi storici, e per il momento non sta riuscendo a trovare una sua nicchia funzionale dentro del panorama delle pubblicazioni attuali. A questo aggiungiamo anche che, da un lato, la pubblicazione di libri scientifici è oggi alle stelle, grazie alla fioritura di case editoriali posticce che, con spese quasi nulle (un portatile e un tecnico improvvisato, generalmente asiatico), ti editano rapidamente (e malamente) un libro, lo vendono a prezzi esorbitanti nei pacchetti editoriali accademici, e stampano solo un numero di copie minime in funzione della richiesta puntuale. Ovvero, tu lavori gratis per loro, che hanno solo tutto da guadagnare. Allo stesso tempo, in molti settori della ricerca nessuno vuole pubblicare più nei libri, perché questo tipo di lavori non vengono generalmente inclusi negli indici ufficiali della produzione accademica, e non interessano quindi a chi fa scienza solo per arrivismo, successo, o competizione. Questi due fattori, la sovrapproduzione di libri di scarsa qualità e la mancanza di intesse letterario da parte della élite accademica, generano un degrado ulteriore del mondo editoriale.

La carta è un supporto che non può competere col pixel sul fronte della distribuzione e, come le biblioteche, anche le librerie devono cercarsi nuove nicchie culturali, nuove funzioni. Ormai il cambiamento è arrivato, ma la scelta non è facile. I fondi sono sempre meno (anche e soprattutto perché la bolla accademica continua a gonfiare l’organigramma di ricercatori e amministratori ad un ritmo esponenziale, generando un sistema economico e culturale che ogni giorno è più autoreferente, improduttivo, teso, e fine a se stesso), e quindi bisogna tagliare da qualche parte. Tutto è disponibile online, il che rende la risorsa fisica costosa e ingombrante. E’ difficile prendere decisioni e, considerando la fretta, c’è la seria possibilità di prenderle male. Bisognerebbe, in qualsiasi caso, allargare un po’ i tempi, aspettare senza comunque fossilizzarsi troppo, sedersi e respirare prima di decidere, perché molte di queste decisioni sono irreversibili, e la scala del tempo può confondere priorità e prospettive. Soprattutto se ci stanno di mezzo il mercato e gli interessi economici, tanto pubblici come privati. Eliminare bits è ancor più facile che bruciare libri, e oggi gran parte della nostra memoria esterna, individuale e collettiva, risiede in servers che dipendono da energie non rinnovabili e accordi finanziari decisamente instabili. Senza contare che, nella stanza dei bottoni che decidono le regole e le priorità dell’archiviazione, non sappiamo chi c’è. È ancora fresco il caso della rivista Investigación y Ciencia (la versione spagnola de Le Scienze) che, dopo essere stata comprata dalla multinazionale dell’editoria scientifica Springer Nature, fu cancellata di botto dalla faccia del pianeta, lei e i suoi archivi digitali che contenevano cinquanta anni di pubblicazioni.

Oltre la cortina del romanticismo (che comunque è duro a morire) c’è un po´ di preoccupazione perché inoltre, a parte la velocità del cambiamento, sembrerebbe che in pochi, come sempre, si stanno facendo domande. La maggior parte delle persone seguono il flusso, automaticamente, utenti ebbri delle nuove proposte commerciali, clienti fieri e spensierati. E, quando cerchi di chiamare l’attenzione su qualche punto debole, come massimo rimedi una alzata di spalle e un laconico “sono i tempi che corrono”.

Qualche settimana fa sono andato al concerto di un amico, un musicista incredibile che, come sempre si fa in queste circostanze, alla fine del concerto si è messo a vendere i suoi dischi, per arrotondare le magre entrate di un chitarrista. E, come sempre, ho cercato il portafoglio per comprarne uno. In quel momento ho realizzato che ormai paghiamo tutto con transizioni digitali, e spesso non abbiamo, letteralmente, un soldo in tasca. Ma, soprattutto, che ormai da qualche anno io, come in molti … non ho nemmeno più un lettore per CD! Letteratura e musica sono, sempre di più, beni immateriali. Come peraltro ormai cominciano ad esserlo, col beneplacito di un algoritmo, anche gli autori.

Sati

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 Il concetto di mindfulness è complesso, complicato, eterogeneo, estremamente vasto, storicamente inquieto, trasversale, profondo, intricato, personale, e delicato. Non c’è quindi da stupirsi che venga associato a dibattiti, discussioni, incertezze, disaccordi, e spesso a usi impropri, o quantomeno parziali. Di fatto, la maggior parte delle volte che uno legge critiche e rimproveri sulle sue innumerevoli interpretazioni, risulta sorprendentemente evidente che sono fondate su una mancanza di conoscenza dei suoi principi e dei suoi contenuti, tanto filosofici come storici o scientifici. Giornalisti, tuttologi e salottari di ogni genere si leggono un paio di articoli su riviste da spiaggia e sono pronti a dissentire e a sentenziare. Nei casi migliori la fonte di informazione è qualche libro preso a caso dalle mensole di autoaiuto di una libreria di mercato, nei casi peggiori è un sentito dire tra cognati e conoscenti. Quasi lo stesso, comunque, si può affermare anche in quelle situazioni che difendono o propongono la meditazione per ragioni che non hanno nulla a che vedere con la conoscenza delle sue dinamiche, e si basano piuttosto nella fede e nella speranza, quando non addirittura nel marketing. Quando parliamo di meditazione, infatti, stiamo parlando di una prospettiva che implica un enorme bagaglio concettuale, una solida pratica sperimentale, e conoscenze che spaziano dalle scienze cognitive alla neurobiologia, dalla sociologia alla filosofia, dalla storia alla medicina. É ovvio quindi che ci sarà sempre, in ogni caso, una certa dose di disinformazione, che fomenterà pregiudizi e speranze, posizioni tribali e risposte emozionali, fraintendimenti e barriere culturali. Quando la critica ottusa o la difesa superficiale si fanno eccessive, possiamo pensare che, a parte la classica dose di incoerenza che tanto caratterizza la nostra specie sapiente, ci sia anche lo zampino del mercato. Da un lato, la meditazione incomincia a muovere abbastanza denaro. Ma, soprattutto, dall’altro, ci sono le case farmaceutiche, multinazionali che campano a spese del disequilibrio psicologico, e che incominciano ad essere preoccupate dell’impatto che la meditazione mindfulness sta avendo nel benessere, tanto individuale quanto collettivo.

Detto questo, la complessità del fenomeno rimane, e anche per quelli che sono ben informati esistono molte questioni incerte che sono difficili da trattare. Tutte le tradizioni filosofiche, in qualsiasi epoca storica, hanno reinventato la meditazione, con forme e soluzioni differenti ma condividendo obiettivi e molti metodi. Ma non c’è dubbio che, nella nostra concezione attuale di mindfulness, la filosofia buddista è quella che ha avuto il peso maggiore, a causa della profondità con cui ha sviluppato la teoria e la pratica della meditazione, e anche del rigore storico con cui ha integrato tutto questo nella sua struttura culturale. E qui cominciano le divergenze, perché il buddismo è un insieme di filosofie che, anche avendo una base comune, hanno poi generato una variabilità tanto storica come geografica. Linee multiple, divergenti e parallele, che hanno lavorato su concetti e definizioni indipendentemente, arrivando a posizioni distinte, e a volte apparentemente poco compatibili. Se a questo ci aggiungiamo la trasposizione al mondo occidentale, con tutte le difficoltà linguistiche e culturali, otteniamo una diversità di prospettive abbastanza difficile da gestire che, se lasciata alle gelosie e all’ego della difesa tribale, può portare a confusioni o a conflitti.

Con il termine mindfulness a volte si indica una pratica che migliora l’equilibrio della propria mente (attenzione, percezione, emozioni, sentimenti, pensieri, etc.), ma a volte il termine si estende ad un passo successivo del percorso meditativo che, con una mente priva di turbolenze, permette una visione obiettiva e introspettiva del mondo. Per la stessa ragione, in genere il mindfulness (soprattutto la sua pratica) si basa su una osservazione senza giudizio, ma poi quando uno raggiunge una posizione equanime e distaccata è necessario invece che il cammino includa elementi di valore, che possano far distinguere le risposte libere da condizionamenti dalle reazioni automatiche piene di coercizioni emozionali. La distinzione tra una fase o una pratica di controllo cognitivo (samatha) e una di visione profonda (vipassana) non va quindi presa troppo letteralmente, essendo il mindfulness la pratica percettiva e mentale che innesca il processo, ma anche la qualità che ne permette e ne sostiene l’intero percorso. A volte poi si usa il termine solo con riferimento all’allenamento finalizzato a migliorare le abilità attenzionali e sensoriali (respirazione, postura, percezione somatica e acustica, etc.), mentre che in molti fanno notare la indissociabilità da valori collettivi quali la bontá, l’empatia e la compassione. In molti casi l’uso della parola mindfulness si impega per presentare le tecniche meditative, ossia gli aspetti pragmatici, mentre altre volte si usa con riferimento alle sue basi teoriche e psicologiche (come per esempio la capacità di essere presente, di non confondere pensiero e realtà, e di saper accettare ciò che non dipende da noi, dissociando le difficoltà o incluso il dolore dalle nostre reazioni automatiche ed emozionali). A volte il termine si riferisce specificatamente a un protocollo terapeutico che si usa in ambito clinico, e a volte invece rappresenta una prospettiva generale, una scelta di vita, una scelta di come vivere, che abbraccia tutti gli ambiti della sfera personale e sociale, professionale e culturale.

Se entriamo poi in un analisi storica, scopriamo che la parola sanscrita sati, che fu tradotta come mindfulness dai primi filologi anglofoni, si riferisce soprattutto all’attenzione nelle tradizioni più recenti, ma era relazionata piuttosto alla memoria in quelle più antiche. Attenzione e memoria, due aspetti che bisogna saper bilanciare ed integrare, soprattutto quando si tratta di … ricordarsi di stare attenti! Inoltre, una parte di questo addestramento cognitivo ribadisce (ed utilizza) la separazione tra soggetto e oggetto, mentre la maggior parte delle scuole attuali, così come nella fenomenologia occidentale di Edmund Husserl, ricercano la fusione delle due entità (no-dualismo). Alcune tradizioni suggeriscono che tutto questo serve a sviluppare abilità e capacità mentali (costruttivismo), mentre altre (quelle più spirituali) propongono che queste abilità già sono presenti in tutti noi, e l’addestramento serve solo a rivelarle, togliendo di mezzo le barriere e i fattori che ne limitano l’espressione (innatismo). Ci sono poi i contesti dove la meditazione ha un importante valore teorico e concettuale, e quelli invece dove quello che conta è quasi solo la pratica, personale e collettiva.

Una delle dicotomie più evidenti, ad oggi, è l’applicazione di tutte queste alternative da un lato al buddismo monastico o comunque tradizionale, e dall’altro al mondo occidentale della terapia e della clinica. Dalla fine degli anni ’70 la meditazione mindfulness ha trovato spazio negli ospedali, associata per esempio a terapie psicologiche, al trattamento di disturbi psicosomatici, o alla gestione del dolore cronico. Da allora, è aumentato esponenzialmente il numero di ospedali e terapeuti che utilizzano la meditazione come risorsa e come strumento. Come c’era da aspettarsi, a parte tutte quelle incertezze e confusioni associate ai tanti fattori menzionati prima, poco a poco si è anche creata un po’ di tensione tra buddisti e professionisti della salute, che hanno cominciato ad avere qualche dubbio sull’interazione tra i due mondi. È evidente che è stato il buddismo ad offrire gli strumenti, pratici e concettuali, alla cultura occidentale, ma è anche vero che è stata la scienza occidentale a trovare il modo di estrarre dal buddismo tutta una serie di elementi trasversali che sono applicabili al benestare in qualsiasi contesto culturale. I buddisti hanno paura che gli occidentali semplifichino e incluso deformino i precetti della loro tradizione filosofica, impoverendo una cultura millenaria o addirittura manipolandola per obiettivi contrari alla sua stessa natura. I terapeuti non vogliono che il buddismo, soprattutto nella sua componente spirituale e liturgica, contamini troppo i protocolli e le pratiche meditative, rendendo tutto più complicato e meno accessibile ai pazienti comuni. E, come sempre, chi è senza peccato reciti il primo mantra. I ferventi del buddismo a volte scivolano in quell’integralismo comune delle tribù umane che li porta a credere in una “verità” unica, stabile, solida certa e duratura, in perfetto contrasto con i precetti stessi di questa filosofia, che invece promuove le idiosincrasie, il cambiamento, e l’assenza di dogmi. C’è da dire che, in questo caso, questa resistenza non è comunque mai troppo esacerbata, se la confrontiamo con le analoghe beghe religiose o politiche,  perché comunque l’apertura, l’accettazione e la capacità di dialogo del buddismo sono talmente profondi che non lasciano mai troppo spazio agli irredentismi ideologici, e ancor meno ai conflitti, di qualsiasi tipo. Allo stesso tempo, è forse vero che troppi terapeuti stanno ricorrendo al mindfulness e alla meditazione senza avere sviluppato troppe competenze, tanto pratiche come teoriche. Per esempio, è frequente scoprire medici, psicologici o insegnanti che ricorrono alla meditazione coi loro pazienti o coi loro studenti, ma senza praticarla loro stessi. La natura personale, empirica e sperimentale della meditazione fa si che questo risulti davvero un paradosso, una anomalia. A loro difesa, va detto che le prospettive della meditazione sono talmente rivelatrici che, anche se insegnata all’acqua di rose o applicata alla leggera, può comunque arrivare a migliorare la qualità della vita. I casi in cui una cattiva applicazione del mindfulness ha generato problemi imprevisti sono, generalmente, molto pochi ed estremi, confrontati con le situazioni in cui invece c’è stato un serio miglioramento del benessere cognitivo.

Nel 2011 la rivista Contemporary Buddhism, una rivista di studio e di ricerca, pubblicò un numero speciale dove buddisti e terapeuti spiegavano le loro ragioni, cercando di avvicinarsi e di condividere gli obiettivi. Gli articoli hanno avuto un successo talmente evidente che sono stati poi trasformati in un libro: Mindfulness: Diverse Perspectives on its Meaning, Origins and Applications (ad oggi non sono riuscito a capire se esista una versione in italiano, se qualcuno la conosce, può lasciare qui un commento; si che esiste una recente versione in spagnolo). E’ un testo davvero eccellente, eccezionale, illuminante. Non è un libro di iniziazione, di introduzione, e nemmeno semplice, perché è un testo specialistico che entra direttamente in una analisi storica, filologica e epistemologica del mindfulness, della tradizione classica e delle applicazioni terapeutiche. Ma è un libro davvero unico per chi volesse conoscere davvero da dove viene il mindfulness, e quale è stato il suo percorso.

A mio avviso, il testo forse soffre di una unica importante lacuna: nel dibattito tra medici e buddisti ci si dimentica di tutti quelli che non stiamo né da una parte né dall’altra, quelli che non siamo né monaci né  pazienti, quelli che non cerchiamo né il nirvana né la cura a una situazione clinica o patologica, ma che usiamo la meditazione come risorsa, come prospettiva e come strumento per migliorare la nostra qualità di vita. Presentare la meditazione principalmente come cammino per l’illuminazione o come terapia clinica fa dimenticare che il mindfulness, in qualsiasi delle tante accezioni menzionate prima, rappresenta un allenamento, una prospettiva, una pratica, una filosofia, che migliora la vita di chiunque, e non solo di chi ha oltrepassato un certo livello clinico di difficoltà esistenziale. Associare troppo strettamente la meditazione agli estremi della spiritualità o della malattia è come dire che deve fare sport solo chi compete a livello agonistico (il monaco) o è obeso (il paziente). L’introduzione della meditazione nel nostro sistema di salute ha rappresentato una pietra miliare della nostra epoca, ma non possiamo pensare che una igiene mentale, tal come l’igiene corporale o quella dietetica, riguardi solo quei casi che hanno oltrepassato una definizione clinica. Le difficoltà sono le stesse per tutti, anche se con un enorme differenza di grado, e non bisognerebbe tollerare problemi e disequilibri solo perchè ancora non hanno raggiunto un livello insopportabile. Come sempre, prevenire è meglio che curare, soprattutto quando questa prevenzione genera un benestare e una libertà che non dipendono da farmaci o da rinunce impossibili, ma solo dalla propria volontá e dal prorio impegno.

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[Qui una selezione di altri post su mindfulness e meditazione]

Za Zen

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Yosa Buson Lo Zen è una elaborazione giapponese della filosofia buddista. Detto questo, il resto è piuttosto oscuro. Se provate a chiedere in giro “cosa è lo Zen?” troverete esperienze, prospettive, sensazioni, ma non risposte. Che si tratti di libri filosofici o più spirituali, pagine web o direttamente parlando con chi lo pratica, è quasi impossibile tirare fuori definizioni, metodi, concetti concreti o indicazioni chiare. Spesso si incontrano solo nozioni sparse e incomplete, che valgono per lo zen così come per tante altre discipline o tradizioni affini allo sviluppo personale e all’introspezione. Forse perché lo zen è uno stile di vita, e quindi difficile da definire. Forse perché lo zen è il risultato di un lungo e complesso percorso personale, e quindi impossibile da ridurre a uno schema semplice ed immediato. Forse perché qualcuno ci giobba e lo colora apposta con mistero e misticismo, per darsi un tono e passare per sacerdote di segreti incomprensibili. Forse perché molti di quelli che lo praticano non lo hanno capito poi troppo a fondo, o quelli che lo spiegano non sono poi troppo bravi a raccontarlo. Forse per tutti questi motivi messi assieme, il ché genera una situazione difficile da valutare, soprattutto per chi volesse avvicinarsi a questa cultura. Dedicarsi a conoscere o a capire una prospettiva millenaria e profonda come questa richiede tempo e impegno, e quindi non motiva il fatto di non riuscire a valutare i suoi contenuti e i suoi orizzonti, al momento di decidere di intraprendere il viaggio. In altri casi ugualmente complessi e impegnativi (come il buddismo stesso o  la meditazione mindfulness, lo stoicismo o le tante filosofie di vita interculturali) le informazioni sono incredibilmente più chiare e dirette, le fonti molto più concrete, e non si capisce quindi bene perché, nel caso dello zen, ci siano tanti misteri.

Il libro Zen Training, di Katsuki Sekida, è decisamente un’eccezione. In italiano è stato tradotto come La pratica dello Zen, e pubblicato da Astrolabio/Ubaldini con una copertina decisamente poco attrattiva. Il titolo non mente: training si riferisce al fatto che è un testo estremamente pratico, empirico, applicato. Un manuale. Ti dice come e perché. Ovviamente, tutte queste tradizioni filosofiche, nonostante le basi in comune, sono poi influenzate dal contesto storico e locale, e hanno una forte componente individuale. Quindi, in realtà, non esiste “uno zen”, sono sempre prospettive adattate alla propria esperienza, e quindi in questo caso il manuale si riferisce allo zen sviluppato specificatamente da Sekida durante una vita di pratica e di studio, con tutte le idiosincrasie psicologiche e sperimentali che ognuno aggiunge alle sue ricette personali. Ma una delle basi del libro è proprio questa: Sekida propone di condividere con la comunità i segreti e i trucchi di chi pratica zen, per far si che lo zen si diffonda, e che i suoi praticanti non debbano passare anni brancolando nel buio, ma possano approfittare delle esperienze sincere di chi ha già sviluppato tecniche e soluzioni. Afferma che lo zen si mantiene troppo spesso nel segreto dell’esperienza personale, e questo ne limita la diffusione e lo sviluppo individuale. Propone uno zen sociale, per il popolo, transculturale, ma per fare questo c’è bisogno di testi chiari, dove invece di concetti sfumati si spieghino le tecniche e i principi psicologici. Inoltre, è convinto che bisogna usare un linguaggio che unisca la cultura orientale e quella occidentale, e che bisogna indagare lo zen, la sua pratica e i suoi effetti, con i metodi della scienza. E qui la sorpresa: Sekida diceva tutto questo … negli anni sessanta! Il libro fu pubblicato nel 1975. Un incredibile pioniere. Davvero incredibile. Un vero illuminato.

La prima parte del libro parla dello za-zen, ovvero della pratica meditativa dello zen. Un manuale in piena regola, con schemi, grafici, consigli e trucchi per allenarsi nella pratica posturale e respiratoria. E’ una meditazione molto distinta da quella del mindfulness, dove la respirazione (decisamente ipossica), segue schemi complessi e dinamici, e la tensione muscolare è sotto continuo controllo. Inoltre, la meditazione di Sekida è principalmente introspettiva, quasi un isolamento sensoriale, ovvero esattamente il contrario del mindfulness. Il tutto viene condito con nozioni dettagliate di fisiologia e degli aspetti cognitivi coinvolti, dall’attenzione alle onde elettroencefalografiche. Poi ci sono parti teoriche, concettuali, la filosofia di vita, ma senza eccessi astratti o spirituali, un racconto diretto e ragionato dell’esperienza. Infine, c’è una parte dedicata alla psicologia zen, una parte abbastanza ripetitiva e apparentemente irreale, che ha bisogno di due o tre riletture per rivelare una struttura sensata (e soprattutto utile) dei suoi concetti.

Ma Sekida non viene da solo. Era maestro di inglese, controllava perfettamente la lingua, e aveva passato diversi anni a Honolulu. Fu lui stesso a tradurre un suo testo originario dal giapponese all’inglese, pubblicando articoli e bozze. Però la versione finale del libro, quella pubblicata poi in tutto il mondo, fu una edizione rivista e selezionata, con la supervisione di Sekida, da Albert Victor Grimstone. Grimstone era un biologo di Cambridge, un pioniere del microscopio elettronico, uno dei primi a descrivere i dettagli di ciglia e flagelli di protozoi e batteri. Edita il testo, lo corregge un poco, seleziona il materiale (molto) ripetitivo di Sekida, e scrive una introduzione degna di un genio. Un vero genio. Accademico inglese negli anni 60, scopre la meditazione come allenamento cognitivo e psicologico, cerca di integrare lo zen nei costumi occidentali, e ne promuove uno studio scientifico e fisiologico. Da qui il contatto, totalmente simbiotico, con Sekida. Per quello che ne so, Grimstone non ha lasciato molte altre tracce: questo libro, e un manuale di microscopia. Negli anni si allontanò dalla ricerca scientifica, dedicandosi alla vita locale. Non mi stupisce. Un biologo che a metà del secolo scorso abbia avuto una apertura mentale così estesa e una visione così potente da voler indagare la struttura proteica delle amebe con fasci di elettroni e la struttura cognitiva della coscienza con tecniche di meditazione non deve aver avuto vita facile, nella continua tormenta emozionale di incoerenza, ipocrisia e sofferenza della società umana.

Immagino aver avuto un Sekida come nonno, e Grimstone come professore di zoologia. O aver almeno condiviso con entrambi una serata in una birreria di Cambridge. Il loro libro resterà comunque sul mio comodino, tra quelli che ogni tanto bisogna rileggere a pagine sciolte, un po’ per recuperare concetti e riflessioni, un po’ per ricordarsi di chi è riuscito a dare un esempio.

Semplifica!

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Simplify Magazine 2023

Per chi vuole orientare la propria vita verso orizzonti diversi, Internet è una giungla dove c’è di tutto. Guide e blogs, conferenze e podcast. Bisogna scavare per trovare qualcosa di veramente stimolante. Le riviste, tuttavia, sono poche. Il formato rivista, il periodico, viene messo da parte a favore, come sempre, di formati più brevi e immediati, di pillole facili e di rapido assorbimento.

Non ricordo esattamente come sono arrivata a Simplify Magazine… o meglio, come lei è arrivata a me. Certamente è stata, come spesso accade, pura serendipità. Ho trovato quello che stavo cercando… senza sapere che lo stavo cercando! Venivo dal minimalismo, tendenza incipiente quando nel 2017 sono stata costretta a trasformare il mio minuscolo appartamento per due persone in una casa abitabile e accogliente per tre… Ed entrare nella porta del minimalismo materiale mi ha aperto un intero mondo di nuove prospettive di vita.

Simplify Magazine, che adesso compie sei anni, è una rivista digitale trimestrale, scaricabile in formato PDF. I numeri della rivista (che pubblica solo in inglese) sono monografie composte da articoli di esperti sull’argomento in questione, che spiegano la loro esperienza con un tono semplice e accessibile, da un punto di vista narrativo e autobiografico, e sempre stimolante e motivazionale.

Il suo fondatore e editore, Joshua Becker, è l’autore di numerosi best-seller sul minimalismo e sulla vita intenzionale, nonché del rinomato sito web Becoming Minimalist, e del film documentario Minimalism: A Documentary About the Important Things. Inoltre, è un’eccellente vetrina per professionisti di diversi settori che contribuiscono con la loro particolare visione a nuovi modi di vedere e pensare il mondo.

Ogni numero è dedicato a un tema, che gli autori affrontano, in generale, nell’ambito della corrente del vivere semplice. Il “più del meno”, l’importanza delle cose che non sono cose, la determinazione a condurre una vita più incentrata sull’essere e non sull’avere, sono la spina dorsale del sistema di valori di cui Becker si fa paladino. Self-Care, Joy, Declutter Your Life, Stress and Overwhelm, Intentional Linving, sono alcuni dei titoli che popolano l’archivio della rivista. Auto-aiuto? Si potrebbe chiamare così, se fosse possibile spogliare questa parola di tutte le connotazioni psicologiche e commerciali che possono suscitare pregiudizi, per mantenere il suo significato letterale: aiutare se stessi a vivere una vita più piena e intenzionale.

Credo che il successo della formula stia proprio nella sua brevità e continuità. I testi della rivista sono relativamente brevi (6-7 pagine), per cui una lettura continuata negli anni funziona come un contagocce per assorbire una certa prospettiva incline al cambiamento. Il vantaggio di essere una rivista trimestrale è che l’investimento di tempo non è molto impegnativo, uno si può leggere un articolo alla settimana, se vuole (o l’intero numero in un fine settimana!). È un formato eccellente per gettare semi nelle menti inquiete, in esplorazione e in germinazione. Un pagamento unico di 20 dollari dà accesso a tutti i numeri per tutta la vita. Un prezzo simbolico, a mio avviso, e un investimento irrisorio per la salute mentale e l’introspezione.

Riflessione e ispirazione per abbracciare il cambiamento, o almeno per diventare consapevoli che il cambiamento è possibile, persino auspicabile, e per accettare che, comunque, è inevitabile.

Carmen Cremades

Evviva la libertà!

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A noi la libertà La libertà esteriore che possiamo raggiungere dipenderà dal grado di libertà interiore che avremo acquisito.

Gandhi

Matthieu Ricard è biologo molecolare e monaco tibetano. E’ uno dei referenti mondiali della meditazione mindfuness, da mezzo secolo implicato nell’integrazione tra neuroscienza occidentale e filosofia buddista. Christophe André è psichiatra. Secondo me, uno dei migliori divulgatori su mindfulness e meditazione. La sua esperienza è clinica, ma i suoi libri portano l’attenzione piena nella vita quotidiana di chiunque.  Alexandre Jollien è filosofo. Con una seria paralisi cerebrale che gli ha reso la vita abbastanza complicata. Lavora su filosofia e meditazione, a tutti i livelli. Suo è il film, eccezionale e commovente, Beautiful Minds, davvero da non perdere! Questi tre incredibili personaggi ogni tanto si incontrano e chiacchierano, per giorni, in una baita. E registrano quello che dicono. E poi lo pubblicano. In questo caso, l’edizione italiana ha tradotto letteralmente il titolo del libro, mentre quella spagnola ha tenuto l’accortezza di trasformarlo in un “Viva la Libertà“!

Perché di libertà si tratta. Se non sei capace di comprendere e prevedere le tue emozioni, non sei libero. Se rispondi automaticamente ai tuoi impulsi o alle tue reazioni, non sei libero. Se non sei capace di renderti conto dei tuoi sentimenti, dei tuoi vincoli e dei tuoi pregiudizi, non sei libero. Questa conoscenza, questa consapevolezza, è il frutto di una osservazione attenta e continuata, attenta e distaccata, attenta ed esperta. Il minimo comun denominatore di questo processo è quindi l’attenzione, ovvero una capacità cognitiva che limita tutte le altre, perché determina quanto e come siamo capaci di dedicare le nostre risorse mentali a un obiettivo. L’allenamento per sviluppare la capacità attenzionale si chiama meditazione, e non è un caso che i nostri tre autori siano dei veri esperti, in questo contesto. Certamente, questo allenamento è però vincolato a un fattore ancora più limitante, che rende il percorso, benché facile, accessibile a pochi: l’intenzione. E’ un percorso che ristruttura il sistema psicologico, quello neuroanatomico, e quello culturale, ed è quindi lento. Richiede pazienza e dedicazione. Quindi, motivazione. Come dice John Kabat-Zinn, è semplice, ma questo non vuol dire che sia facile. Per imparare ad osservare bisogna voler implicarsi. Il ché suona strano quando uno parla della propria qualità della vita, del proprio benestare, e del benestare di chi ci è vicino. Ma tant’è, e sono in molti quelli che preferiscono vivere la loro unica vita affossati nella propria sofferenza (più grave o più leggera che sia) che accettare di dover intraprendere un cambiamento che implica, necessariamente, un impegno.

Nel libro, comunque, la meditazione appare e scompare, senza accaparrare l’attenzione del discorso, che invece cerca di svilupparsi trasversalmente a problematiche molto distinte e distanti. La prima parte la dedicano agli ostacoli verso una libertà interiore, gli ostacoli quotidiani e quelli psicologici, come la acrasia (debolezza morale), la dipendenza, la paura o l’egocentrismo. La seconda parte parla di una “ecologia della libertà”, indagando l’influenza dell’ambiente fisico, di quello sociale e di quello culturale. La terza parte parla dello sforzo verso una condizione libera, della trasformazione e (qui si!) della meditazione. La quarta e ultima parte esamina il frutto di questa libertà interiore.

Non direi che è un libro facile. La struttura è particolare, perché non è un saggio, ma la trascrizione di tre persone che parlano tra di loro. Questo tipo di stratagemmi letterari a qualcuno facilitano la lettura, ad altri no. Ma decisamente ciò che rende questo libro uno strumento complesso è la densità dei temi trattati, e la loro profondità. E’ davvero uno scrigno, compatto, un vaso di Pandora, che riassume in poche centinaia di pagine tutte le principali difficoltà della vita, così come tutte le alternative che possono essere considerate. Come sempre, il termine “sofferenza” presenta una notevole varietà nel grado di espressione, ma poco importa, perché la stessa esplorazione vale per chi ha problemi seri (incluso clinici), per chi ha difficoltà tollerabili ma costanti e diffuse (stress, emozioni complicate, relazioni difficili, e la solita valanga di dubbi esistenziali …) che a poco a poco gli affannano l’esistere, o incluso per chi avesse una qualità della vita sana e soddisfacente (e qui suppongo che siano davvero in pochi) ma volesse esplorare il modo di essere ancora più autonomo e cosciente della propria realtà. Dovendo dare una opinione, direi che è un libro più adatto a chi già ha navigato a fondo in queste acque, e vuole a questo punto una immersione profonda, un trattamento di impatto. Ma vai tu a sapere … i percorsi personali sono, per definizione, personali, e forse un concentrato come questo può anche essere utile a chi non si è mai posto il problema, ed ha bisogno di una spinta forte per rompere l’inerzia.

Non c’è nessun dubbio sul fatto che questo libro sia un vero regalo, un cofanetto prezioso di segreti e di rivelazioni, che le menti di tre grandi esploratori della vita ci hanno confezionato per accompagnarci verso orizzonti che, da soli, avremmo impiegato troppo tempo per scoprire. E non c’è nessun dubbio anche sul fatto che per assimilare tutti gli aspetti e le prospettive che vengono presentate ci voglia molto tempo. E poi molto di più per far si che quelle prospettive si possano integrare nel nostro modo di essere, e nella nostra sfera quotidiana. In molti casi sono aspetti semplici, e spaventosamente sensati. Il problema è che sono tanti, e impregnano tutta la struttura profonda della nostra architettura mentale e sociale. Ma si sa, il cammino si può far solo camminando.

***

Viandante, sono le tue impronte
il sentiero e niente di più.
Viandante, non c’è nessun sentiero,
Il sentiero si fa camminando.
Camminando si fa il sentiero,
e quando ti guardi indietro
si vede il sentiero che mai più
tornerai a percorrere.
Viandante, non c’è sentiero,
ma soltanto scie nel mare.

(Antonio Machado)