Penso dunque sono. Ma in realtà sarebbe meglio dire che penso e, al massimo, penso di essere. Tra il materialismo più bieco e le distopie cognitive più sconvolgenti, c’è solo una certezza: non ci sono certezze. Siamo macchine reali, individuali e autonome, o è tutto un sogno nel sogno, frutto di una illusione totalmente immaginaria ma perfettamente convincente? Per la seconda opzione non serve un disegno cosmico o un programmatore onnipotente, ma basta prendere un po’ sul serio la neurobiologia: una valanga di stimoli raggiunge il nostro corpo sotto forma di energia, le interfacce fisiologiche dei nostri sensi le trasformano in segnale nervoso, il cervello integra il tutto e genera uno scenario, un personaggio, e una storia. Un girasole non è giallo, non è nemmeno colorato, è il nostro cervello che associa lo stimolo di una certa lunghezza d’onda a una percezione di “colore”, e dipinge il girasole di giallo. L’esempio è semplice ma di grande impatto (la maggior parte delle persone non hanno mai considerato che la realtà non è a colori, ma è il nostro sistema nervoso che la rappresenta così), e si può estendere a tutte le nostre percezioni, ma è ovviamente un esempio molto specifico, e le cose si complicano abbastanza quando passiamo a concetti più sfocati come la coscienza o la percezione del sé.
Una scossa forte ai pilastri dell’individualismo arriva dai concetti di impermanenza e interconnessione, sviluppati un po’ da tutte le filosofie mondiali ma particolarmente cari al buddismo. Il primo principio si riferisce al fatto che tutto cambia, anche se continuamente ci afferriamo alla assurda speranza di una stabilità, di una continuità, di una consistenza, di una realtà unica vera e giusta. Tutto invece cambia costantemente, nulla rimane uguale a se stesso, è il principio della vita, della morte, e della termodinamica. Non ci bagniamo mai nello stesso fiume, ma nemmeno il fiume può bagnare due volte lo stesso corpo. Il secondo principio ci ricorda che la frontiera della nostra pelle è convenzionale: materia e energia non hanno confini ne padroni, e viaggiano continuamente da un elemento a un altro di un sistema che va ben oltre lo spazio che occupiamo in questo momento, o che occuperemo durante la nostra vita. Niente di nuovo per chi conosce come funziona l’ecologia. Come individui, siamo solo cellule di un sistema molto più complesso, che hanno bisogno di tutti gli altri elementi per poter, perlomeno, esistere. E incluso per poter pensare. Questi due principi annientano qualsiasi tentativo di stabilire una autonomia del nostro essere o della nostra individualità, tanto nel tempo (impermanenza) come nello spazio (interconnessione). Se a questo aggiungiamo la prospettiva neurobiologica di cui sopra, dove il mondo che conosciamo non è altro che un modello neuronale, non c’è ritorno: pillola rossa. E così scopriamo che non siamo il personaggio della nostra storia, ma solo un suo lettore.
Ma allora chi è il personaggio? Il personaggio è un insieme di ricordi e aspettative, desideri e paure, preconcetti e convinzioni, che il nostro sistema nervoso costruisce e associa a un corpo, e che si chiama ego. Tutte queste caratteristiche, fisiche ed emozionali, si inseriscono in una progressione temporale basata su proiezioni che chiamiamo passato e futuro, simulazioni virtuali principalmente basate su immagini e parole, e così si genera una storia. Noi “siamo” solo nel presente, ma le nostre proiezioni creano una sequenza immaginata, che ci dà una sensazione di continuità: il mio corpo e le mie emozioni, in una sequenza cronologica. Il personaggio di questo film si nutre delle risorse neurali per creare la percezione di una individualità e continuità di se stesso, nello spazio e nel tempo. E’ un prodotto automatico, quindi in genere non siamo coscienti della sua formazione, e ci lasciamo andare, facendoci proiettare inconsciamente in questa costruzione fatta di emozioni e pensieri. L’assioma “Io sono così” si sviluppa con le condizioni di un pilota automatico, con tutte le sue etichette e i suoi pregiudizi.
Ovviamente non ci sono molte alternative, abbiamo bisogno di questo personaggio (o per lo meno di un personaggio) per poter gestire (e goderci) l’unica vita che abbiamo. Ma le difficoltà arrivano quando questo personaggio non ci conviene, quando ci dà problemi, o quando non ci piace. Il che succede, in un grado più o meno estremo o in momenti particolari della nostra vita, con estrema frequenza. Le conseguenze vanno dall’insoddisfazione cronica alla depressione, dallo stress all’agonia, dall’infelicità alla tristezza, dalla disperazione alla noia. In poche parole, il personaggio finisce per esprimere una sofferenza ontologica del genere umano, il dramma esistenziale di tutti quei poeti e filosofi che cantano il dolor del vivere, il nulla di chi arriva, prima o poi, a un punto troppo vuoto della propria esistenza, e incomincia a farsi domande che avrebbe dovuto cominciare a farsi molto prima. Ed è chiaro che se ci identifichiamo nel personaggio non c’è rimedio: ci è toccato questo, e siamo condannati a tollerarlo, o magari a farci a botte tutta una vita. Manco a dirlo, le conseguenze non si pagano solo a livello individuale, ma in genere poi si fanno pagare a tutti quelli che capitano a tiro. La alternativa: ricordarsi che è solo un personaggio, che è il mio personaggio, e che quindi se non mi piace lo cambio subito.
L’ego è un prodotto automatico, e quindi la prima cosa da fare quando comincia a dare problemi è proprio uscire dall’automatismo, addestrando attenzione, coscienza, e presenza. Separando le percezioni dalle sensazioni, le sensazioni dalle emozioni, le emozioni dai pensieri. Pillola rossa. Separare i componenti per poterli osservare e riconoscere, e quindi, alla fine, poter decidere. Poter decidere davvero, senza la voce del personaggio che ti dice cosa fare. Senza gli istinti che ti fanno decidere in base a secrezioni biochimiche, selezionate per far trionfare la specie a scapito della felicità dell’individuo, manipolandoti con neurotrasmettitori e ormoni che ti fanno credere a bisogni che in realtà non hai. Senza le pressioni sociali e culturali, che generano speranze, aspettative e necessità che non sono le tue, e che la maggior parte delle volte sono selvaggiamente determinate dal contesto economico, politico o religioso, tre sistemi che campano precisamente fomentando paure, insicurezze, e tante altre debolezze umane che hanno radici incredibilmente profonde.
Qualcuno arriva a capire che questa transizione è difficile e complicata, ma l’alternativa è davvero molto peggio, e inizia un percorso che cerca nuovi orizzonti, sapendo che, comunque, non ci saranno mete. Il lettore della nostra storia si converte allora nel suo scrittore, o perlomeno nel responsabile del casting. Per entrare in questa fase non sono necessarie abilità specifiche o requisiti speciali, eccetto uno: la volontà. Qualcuno invece farà finta di niente, guardando da un’altra parte e consegnando la propria vita all’esecuzione passiva delle reazioni automatiche e delle emozioni convulse, riservandosi il diritto di lamentarsi per gli anni a venire. E infine qualcuno non si accorgerà di nulla e continuerà, nel bene e nel male, a pensare che i girasoli sono effettivamente gialli, che gli altri sono la causa di tutti i suoi problemi, o che un centro commerciale è un buon posto per passare un pomeriggio. Nel primo caso, evidentemente, bisogna accettare di separarsi da un personaggio che ci ha accompagnati per tanto tempo. Siamo il frutto di aspettative, di speranze, di conflitti e di certezze che hanno determinato non solo le nostre emozioni, ma anche i nostri interessi, le nostre preferenze, e le nostre magnifiche ossessioni, molte delle quali hanno rappresentato, sempre nel bene e nel male, la fonte delle nostre priorità, e delle nostre motivazioni. Dobbiamo quindi essere pronti a scoprire che, nella tana del Bianconiglio, alcune di quelle motivazioni non hanno più senso, ed è arrivato il momento di lasciarle andare. E per far questo bisogna imparare a vivere il cambiamento non come una perdita, ma come una opportunità.
Valerio ha detto:
Molto interessante. Chi più chi meno, penso che ognuno di noi possa ritrovarsi con quanto scritto, e quelli che hanno un poco di onestà intellettuale riconoscerebbero sicuramente al fattore volontà un ruolo fondamentale. Certo, credo che tutto questo si applichi solo a chi come noi gode di una vita privilegiata… coloro che vivono l’estrema povertà, prodotto conseguente del nostro degenerato consumismo, hanno molte meno opportunità di cambiare la propria condizione, anche qualora ne avessero la volontà, ed ammesso che ne abbiano coscienza.
Personalmente non so se le nostre azioni siano solo il prodotto di processi biochimici, o se invece dipendano da un vero è proprio atto di volontà. Ciò che è certo è il fatto che dobbiamo fare i conti con il contesto (interconnessione) e con il mutare dello Zeitgeist (impermanenza). Entrambe sono variabili estremamente condizionanti, che potrebbero farci dubitare anche dell’esistenza del libero arbitrio. Anche il pensiero più radicale, eversivo ed originale, dipende da ciò che ci circonda in quel momento. Ed allora esiste davvero la volontà? Abbiamo davvero la libertà di decidere del nostro destino, della nostra gratificazione, della nostra felicità? O anche questa è un’illusione?
Sinceramente, non mi interessa… o meglio, mi interessa per intrattenermi in disquisizioni di carattere filosofico, ma in termini pratici non ci bado poi molto. Faccio sport perché non voglio cedere all’idea che il mio fisico stia invecchiando, razionalmente conscio del fatto che non sarò mai più come quando avevo vent’anni, eppure perennemente insoddisfatto per il fatto di non riuscire più a raggiungere certe performance. E quindi non cedo, imperterrito, chiedendomi ogni giorno “ma chi me lo fa fare?!”. In fondo, sarò libero di mollare?! D’altro canto so che, per come sono fatto, cedere alla caducità del mio fisico mi porterebbe troppo facilmente ad un abbandono repentino di ogni attività sportiva, con somma gioia iniziale (meno stress, più tempo libero) e perenni sensi di colpa. Potrei estendere il concetto all’abbandono del posto fisso in favore di qualcosa che mi piaccia davvero, o a qualsiasi altro aspetto insoddisfacente della vita… eppure pianifico, faccio passettini, ma nessun salto, non ancora per lo meno.
Volere è potere! E’ una massima che mi accompagna da sempre. Ma benché di forte impatto emotivo, credo sia vera solo parzialmente. Ed allora cosa mi impedisce di fare quel salto? E se fosse un atavico senso di sopravvivenza? Certo, sopravvivere non è vivere, ma è comunque un intento nobile! Ed allora ecco che quella mancanza di volontà mi appare meno deprecabile di quanto pensassi, e forse anche meno biasimabile.
La cosa tremenda è che se a livello individuale questo abbia un impatto marginale, a livello comunitario è devastante. Accettiamo che ci siano persone che guadagno MILIONI di euro perché offrono intrattenimento, mentre MILIONI di persone muoiono di fame. Accettiamo che ci siano guerre in nome di alti ideali di giustizia, costantemente contraddetti e ribaltati da quelle stesse entità che se ne facevano portatori. E ripeto, lo accettiamo, anche se sappiamo essere moralmente sbagliato. E perché lo facciamo? Mancanza di volontà di correggere le ingiustizie? Non posso crederci! E perché queste cose continuano ad esistere fin dall’alba dei tempi? Dov’è l’impermanenza se tutto si ripete ancora ed ancora?
Un po’ come per la teoria dei meme, forse ci sono forze ad un livello superiore di quello di individuo, o chissà anche di specie, che alla fine rendono il semplice atto di volontà una mera illusione…
Eppure io scelgo di farlo! La mia forza di volontà guiderà ancora le mie scelte, la mia morale, il modo in cui relazionarmi agli altri ed al mondo. Se poi tutto dovesse rilevarsi un’illusione, sarà stata comunque la mia realtà e sarà valsa la pena averla vissuta appieno. Perché dopo tutto, per quanto mi riguarda, il girasole è giallo!
Emiliano Bruner ha detto:
Sono argomenti filosofici e complessi, quindi non c’è dubbio che è meglio evitare regole fisse e conclusioni. Ma bisogna pure stare attenti a non cadere nella trappola del generalismo.
La possibilità e la autonomia del cambiamento non sono necessariamente legati al potere economico. Un povero ha meno risorse di un ricco, a livello individuale e sociale, ma questa è una ovvietà. Qui non si sta però parlando di un cambiamento che passa per risorse materiali. Il povero ha meno possibilità di cambiare la sua condizione (esterna) se stiamo considerando il suo potenziale economico o logistico, è ha urgenze vitali che il ricco invece non ha. Ovvio, appunto. Ma a livello umano o mentale la capacità di autonomia, di libertà, non dipende dal potere d’acquisto. La condizione esterna dipende da molti fattori sociali e ambientali, molti dei quali sono dipendono da noi, ma la condizione interna dipende invece molto da noi stessi. Se non puoi cambiare la realtà, puoi comunque sempre cambiare la tua forma di viverla. Senza contare che, se acquisisci autonomia di pensiero, è anche probabile che poco a poco alla fine puoi anche arrivare a cambiare qualcosa della realtà esterna. Se oltre ai condizionamenti esterni hai anche condizionamenti interni, invece, un cambiamento positivo è meno probabile.
Quindi ecco, non confondiamo la condizione esterna (che dipende in gran misure dal contesto) e la condizione interna (che dipende in maggiore misura da noi stessi).
E questo ci porta alla seconda generalizzazione che è meglio evitare: non è tutto bianco e nero, ma in genere è una questione di più e di meno, di scala cromatica. Tra chi ha tutte le scelte a portata di mano e chi non ha nessuna, nel mezzo, ci sono tutti gli altri, che siamo i più. Gli estremi sono utili per forzare gli esempi, ma poi nella vita normale gli estremi sono, appunto, estremi. Nella nostra società quasi nessuno è davvero povero, ma la maggior parte delle persone soffrono problemi seri di autonomia e di qualità di vita perché sono totalmente assenti dalla propria vita. Nella maggioranza di questi casi, potrebbero iniziare un percorso di formazione e di crescita, ma, semplicemente, non lo fanno.
Arriviamo infine al libero arbitrio, un altro argomento che ha sofferto molto le generalizzazioni. Secoli a spaccarsi la testa per determinare se siamo liberi o no, ma sempre tenendo in conto solo gli estremi: la totale libertà, o la sua totale assenza. E questo ci fa dimenticare che, con tutta la probabilità, siamo per lo meno “un po’” liberi. Quanto? Non lo sappiamo, ma quella quota di libertà che abbiamo dovremmo decidere di utilizzarla, e non lasciare tutto al caso (o alle multinazionali, o alla politica, o alla religione) solo perché non abbiamo risposte definitive e precise. Interpretare l’atto di volontà come “mera illusione” è solo un trucco per deresponsabilizzarsi, e scaricare tutte le colpe sugli altri, o sul contesto.
Vin invito davvero a leggervi questo articolo mio, che come sempre si può tradurre con DeepL:
https://www.jotdown.es/2024/01/elogio-de-la-desobediencia/
Infine, i girasoli … Credo che non ci sia bisogno di stabilire se sono o non sono gialli, l’importante è che sono … belli!