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Wikipedia definisce una bolla speculativa come “una particolare fase di mercato caratterizzata da un aumento considerevole e ingiustificato dei prezzi di uno o più beni, dovuto ad una crescita della domanda repentina e limitata nel tempo”. Aggiunge anche che “l’eccesso di domanda che spinge verso l’alto in poco tempo il valore di un bene, di un servizio, di una impresa o più semplicemente di un titolo che rappresenta un qualche diritto sugli stessi, si può ricondurre all’irrazionale (o razionale) euforia di soggetti economici convinti che una nuova industria, un nuovo prodotto, una nuova tecnologia potranno offrire cospicui guadagni e registrare una crescita senza precedenti”. Conosciamo bene cause e effetti associati a leciti e illeciti delle banche e dell’edilizia, ma è chiaro che nel nostro sistema economico e sociale di bolle ce ne sono tante, da quelle sportive a quelle alimentari. La ricerca e l’educazione accademica rappresentano una nuova bolla speculativa dell’ultima decade, in aumento esponenziale. Per chi vuole mettersi nel mondo della scienza ad oggi ci sono solo due possibilità: dedicarsi alla ricerca di finanziamenti per muovere posti e denaro, o dedicarsi all’insegnamento procacciando matricole. In entrambi i casi è una questione di puro marketing. In entrambi i casi qualsiasi metodo è lecito, il fine giustifica i mezzi, e il successo non si pesa in cultura ma in valuta corrente.
A livello di ricerca scientifica, la gestione dei centri e delle istituzioni si basa quasi esclusivamente sulla ricerca di finanziamenti. Le istituzioni campano, a livello amministrativo (posti di lavoro, salari, privilegi), dei soldi che il ricercatore-impresario procaccia con le sue doti di venditore. In molti centri di ricerca europei le istituzioni si tengono un 20% dell’incasso, negli Stati Uniti si arriva facilmente al 60%. I contratti ai ricercatori sono sempre a tempo determinato: alla fine di 3-5 anni si valuta quanti soldi il ricercatore ha fatto guadagnare all’istituzione, e si decide quindi se rinnovare. I ricercatori che restano in coda sono fuori, e quindi la competizione è costante, il giro di soldi aumenta, e i metodi di vendita del prodotto si fanno estremi. I ricercatori mercanteggiano con le istituzioni i loro salari e le loro risorse in funzione del loro apporto economico. La valutazione della produzione scientifica è assolutamente secondaria, e in molti casi si interpreta più come una soddisfazione personale del ricercatore che non una esigenza dell’istituzione. Se un ricercatore produce buona ricerca ma senza muovere soldi, semplicemente non serve, non è un buon investimento. La bolla speculativa è evidente: per mantenere sempre più gente si gonfia il prodotto, e questo aumenterà i salari e i posti di lavoro, ma a quel punto le esigenze diventeranno maggiori e bisognerà gonfiare ulteriormente.
Sul fronte della didattica accademica, lo sappiamo, ad oggi lo studente è in realtà un cliente, quel cliente che ha sempre ragione, la ragione della matricola che paga. Un cliente che deve essere, alla fine dell’esperienza, soddisfatto. Ed ecco che le università investono nel landscaping dei giardini e delle caffetterie, alleggeriscono il carico didattico e aumentano quello ludico, e contrattano specialisti di marketing per preparare le lezioni. A parte i rischi etici e culturali di questa strategia da club vacanze, anche qui c’è la bolla, giocata in questo caso sull’euforia studentesca. Se infatti ci sono molti più posti per la docenza che non per la ricerca è perché non ci sono tante possibilità per quanti ricercatori sono in circolazione. Il ricercatore eccede, e allora lo mettiamo a insegnare, ovvero a moltiplicare il mercato degli studenti-clienti. A insegnare cosa? La sua disciplina, ovviamente. Non bisogna essere un genio dell’economia per capire che quel ricercatore che non ha trovato un posto di ricerca moltiplicherà a questo punto il numero di persone con quella stessa professionalità. Se un biologo deve insegnare perché per lui non c’è un posto di ricerca allora genererà altri biologi, e se non c’era possibilità di lavoro per uno men che meno ce ne sarà per tutte le decine di biologi da lui generati, che a loro volta dovranno andare a insegnare per trovare un salario, formando ancora più biologi. La bolla.
Aumenta il circolo di denaro in un sistema di ricerca che si basa ormai quasi integralmente sul circolo di denaro. Ma arriverà un momento in cui il teatro della ricerca non potrà più reggersi sul marketing, perché ci sarà un eccesso di gestione relativo alle possibilità economiche o al valore effettivo del prodotto. Aumenta il mercato degli studenti. Ma arriverà un momento in cui non ci sarà tanto lavoro per tutti quegli specializzati che si auto-moltiplicano come gremlins. In realtà questi momenti stanno già arrivando. In realtà sono già arrivati. Ma sappiamo che il mercato non cede, sempre porta all’estremo, sfrutta fino all’osso, fino a che la bolla scoppia. Segue mea culpa, autocritica, si vedeva venire, e poi si ricomincia come prima, con la stessa irrazionale (o razionale) euforia, con la stessa incompetenza, e con la stessa ipocrisia. C’era quella barzelletta del muratore contrattato per fare una casa … bisognava pagarlo e si contrattò un contabile … serviva allora anche un segretario … e quindi un ufficio di risorse umane … e un responsabile della sicurezza … e un sindacalista … e un direttore dei lavori … Alla fine il denaro non fu più sufficiente per pagare tutte queste persone. E dovettero licenziare il muratore.
Gabriele ha detto:
In realtà per esperienza personale ti dico che per alcune realtà come Palermo se la bolla non è già esplosa ci manca poco, o almeno si stà sgonfiando. Vista la brutta gestione e il circolo vizioso da te descritto secondo me, se non si cambia, in meno di un decennio falliranno il mio ateneo e molti altri in Italia. Anche qui a Valencia non sono da meno con un mega campus (per carità pieno di servizi estremamente utili per gli studenti) ricco di attività extra didattiche che a volte sembra un villaggio turistico.
Francesca Ricci ha detto:
A supporto del post di Emiliano, segnalo questo articolo (in realtà uno di tre, tutti sullo stesso tema):
https://www.che-fare.com/eta-inadeguatezza-burnout-ricerca-francesca-coin/
Forse la descrizione è un po’ apocalittica, ma i fenomeni descritti sono triste realtà: dal ‘publish or perish’, al burnout nel mondo della ricerca (soprattutto nelle università in US e UK), alla corsa ad accaparrarsi studenti da parte delle università ricorrendo sempre di più a campagne di marketing (la marketisation of education e tutte le sue conseguenze sulla salute degli studenti e sul destino dell’educazione).
In fondo, la situazione italiana: ‘(…) la tragica consapevolezza che, dentro un ordine del discorso definito dalla supply economics, la marginalità produttiva dell’Italia nel contesto internazionale avrebbe implicato l’inutilità dell’istruzione tout court, poiché questa viene intesa, sempre in questo paradigma, sempre e solo come serva del mercato’.
Ottima riflessione.
Emiliano Bruner ha detto:
Si, articolo completo e diretto questo del “burnout”!!! La cosa eclatante è che ormai tutti sono perfettamente coscienti del problema, ma nessuno sembra voler cambiar rotta!!! Spesso questa situazione è denunciata dalle stesse riviste che poi ci speculano sopra … Tutti criticano il marketing della scienza e denunciano i problemi che sta generando, ma allo stesso tempo il mondo accademico riafferma, quasi orgoglioso, questa politica come la più attuale e moderna, un modello, uno standard da seguire.
All’articolo voglio solo aggiungere due cose. Primo, il “publish or perish” è tremendo, ma attenzione a non buttare tutto al fiume … I principi della competizione spietata e mercantile sono pessimi, ma non il pubblicare di per se. La pubblicazione scientifica rimane ancora la vera meta finale della scienza. Se non c’è pubblicazione, non c’è scienza. Allora devono cambiare i criteri e i meccanismi, ma non la meta.
Il secondo punto riguarda “gli studenti”, che vengono sempre descritti come le vittime di tutto questo … In realtà sono un campione aleatorio della popolazione, come lo sono i docenti, gli accademici, o gli amministratori. Non dobbiamo pensare che gli studenti siano esterni o passivi al processo: ne fanno parte. Lo studente “medio” spesso è un ragazzino che cerca alcool, sesso, e notti immemorabili, e che accetta e sostiene il principio dell’università-mercato. Non è la vittima, ma il mattone del processo.
Vi ricordo altri due post sul tema …