Evviva la libertà!

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A noi la libertà La libertà esteriore che possiamo raggiungere dipenderà dal grado di libertà interiore che avremo acquisito.

Gandhi

Matthieu Ricard è biologo molecolare e monaco tibetano. E’ uno dei referenti mondiali della meditazione mindfuness, da mezzo secolo implicato nell’integrazione tra neuroscienza occidentale e filosofia buddista. Christophe André è psichiatra. Secondo me, uno dei migliori divulgatori su mindfulness e meditazione. La sua esperienza è clinica, ma i suoi libri portano l’attenzione piena nella vita quotidiana di chiunque.  Alexandre Jollien è filosofo. Con una seria paralisi cerebrale che gli ha reso la vita abbastanza complicata. Lavora su filosofia e meditazione, a tutti i livelli. Suo è il film, eccezionale e commovente, Beautiful Minds, davvero da non perdere! Questi tre incredibili personaggi ogni tanto si incontrano e chiacchierano, per giorni, in una baita. E registrano quello che dicono. E poi lo pubblicano. In questo caso, l’edizione italiana ha tradotto letteralmente il titolo del libro, mentre quella spagnola ha tenuto l’accortezza di trasformarlo in un “Viva la Libertà“!

Perché di libertà si tratta. Se non sei capace di comprendere e prevedere le tue emozioni, non sei libero. Se rispondi automaticamente ai tuoi impulsi o alle tue reazioni, non sei libero. Se non sei capace di renderti conto dei tuoi sentimenti, dei tuoi vincoli e dei tuoi pregiudizi, non sei libero. Questa conoscenza, questa consapevolezza, è il frutto di una osservazione attenta e continuata, attenta e distaccata, attenta ed esperta. Il minimo comun denominatore di questo processo è quindi l’attenzione, ovvero una capacità cognitiva che limita tutte le altre, perché determina quanto e come siamo capaci di dedicare le nostre risorse mentali a un obiettivo. L’allenamento per sviluppare la capacità attenzionale si chiama meditazione, e non è un caso che i nostri tre autori siano dei veri esperti, in questo contesto. Certamente, questo allenamento è però vincolato a un fattore ancora più limitante, che rende il percorso, benché facile, accessibile a pochi: l’intenzione. E’ un percorso che ristruttura il sistema psicologico, quello neuroanatomico, e quello culturale, ed è quindi lento. Richiede pazienza e dedicazione. Quindi, motivazione. Come dice John Kabat-Zinn, è semplice, ma questo non vuol dire che sia facile. Per imparare ad osservare bisogna voler implicarsi. Il ché suona strano quando uno parla della propria qualità della vita, del proprio benestare, e del benestare di chi ci è vicino. Ma tant’è, e sono in molti quelli che preferiscono vivere la loro unica vita affossati nella propria sofferenza (più grave o più leggera che sia) che accettare di dover intraprendere un cambiamento che implica, necessariamente, un impegno.

Nel libro, comunque, la meditazione appare e scompare, senza accaparrare l’attenzione del discorso, che invece cerca di svilupparsi trasversalmente a problematiche molto distinte e distanti. La prima parte la dedicano agli ostacoli verso una libertà interiore, gli ostacoli quotidiani e quelli psicologici, come la acrasia (debolezza morale), la dipendenza, la paura o l’egocentrismo. La seconda parte parla di una “ecologia della libertà”, indagando l’influenza dell’ambiente fisico, di quello sociale e di quello culturale. La terza parte parla dello sforzo verso una condizione libera, della trasformazione e (qui si!) della meditazione. La quarta e ultima parte esamina il frutto di questa libertà interiore.

Non direi che è un libro facile. La struttura è particolare, perché non è un saggio, ma la trascrizione di tre persone che parlano tra di loro. Questo tipo di stratagemmi letterari a qualcuno facilitano la lettura, ad altri no. Ma decisamente ciò che rende questo libro uno strumento complesso è la densità dei temi trattati, e la loro profondità. E’ davvero uno scrigno, compatto, un vaso di Pandora, che riassume in poche centinaia di pagine tutte le principali difficoltà della vita, così come tutte le alternative che possono essere considerate. Come sempre, il termine “sofferenza” presenta una notevole varietà nel grado di espressione, ma poco importa, perché la stessa esplorazione vale per chi ha problemi seri (incluso clinici), per chi ha difficoltà tollerabili ma costanti e diffuse (stress, emozioni complicate, relazioni difficili, e la solita valanga di dubbi esistenziali …) che a poco a poco gli affannano l’esistere, o incluso per chi avesse una qualità della vita sana e soddisfacente (e qui suppongo che siano davvero in pochi) ma volesse esplorare il modo di essere ancora più autonomo e cosciente della propria realtà. Dovendo dare una opinione, direi che è un libro più adatto a chi già ha navigato a fondo in queste acque, e vuole a questo punto una immersione profonda, un trattamento di impatto. Ma vai tu a sapere … i percorsi personali sono, per definizione, personali, e forse un concentrato come questo può anche essere utile a chi non si è mai posto il problema, ed ha bisogno di una spinta forte per rompere l’inerzia.

Non c’è nessun dubbio sul fatto che questo libro sia un vero regalo, un cofanetto prezioso di segreti e di rivelazioni, che le menti di tre grandi esploratori della vita ci hanno confezionato per accompagnarci verso orizzonti che, da soli, avremmo impiegato troppo tempo per scoprire. E non c’è nessun dubbio anche sul fatto che per assimilare tutti gli aspetti e le prospettive che vengono presentate ci voglia molto tempo. E poi molto di più per far si che quelle prospettive si possano integrare nel nostro modo di essere, e nella nostra sfera quotidiana. In molti casi sono aspetti semplici, e spaventosamente sensati. Il problema è che sono tanti, e impregnano tutta la struttura profonda della nostra architettura mentale e sociale. Ma si sa, il cammino si può far solo camminando.

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Viandante, sono le tue impronte
il sentiero e niente di più.
Viandante, non c’è nessun sentiero,
Il sentiero si fa camminando.
Camminando si fa il sentiero,
e quando ti guardi indietro
si vede il sentiero che mai più
tornerai a percorrere.
Viandante, non c’è sentiero,
ma soltanto scie nel mare.

(Antonio Machado)

Scacco pazzo

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La vita è come una partita a scacchi. E io non so giocare a scacchi! La frase girava in qualche meme dove un tizio prestava una faccia in stile Grande Lebowsky, in orgogliosa accettazione di una sincera inadeguatezza esistenziale, un doveroso elogio all’incapacità che, in chi più e in chi meno, prospera in tutti noi. Gli scacchi insegnano, e da sempre sono stati presi come analogia per affrontare le difficoltà della vita, risolvere problemi, o allenarci a pensare. Ma, come tutte le analogie, non bisogna poi ossessionarsi e spingere il confronto troppo a fondo, sennò si perde di vista che una analogia è una analogia, e non la realtà. Jiddu Krishnamurti ha fatto notare come l’essere umano, appena crea un simbolo, dà più importanza al simbolo che a ciò che rappresenta, generando alla fine credenze e conclusioni che non hanno più un riscontro utile con la realtà delle cose, o con la motivazione originaria che aveva quel simbolo. E la vita, alla fine, non è una partita a scacchi. Soprattutto perché negli scacchi bisogna seguire delle regole e delle norme, mentre nella vita no. Ci sono ovviamente molte regole e norme nella nostra vita quotidiana, civile e istituzionale, ma la maggior parte sono tacite, e quindi ognuno ha poi la facoltà di decidere se, quando, e quanto seguirle. Di fatto, c’è chi ha una abilità indiscutibile nel gestirsi la vita con un certo successo seguendo le norme, e chi invece è abile proprio a non seguirle, o incluso ad inventarne di nuove. La maggior parte sono norme sociali, e quindi è tutta una responsabilità individuale quella di decidere (o scegliere) in che misura l’accettazione di queste norme può migliorare o peggiorare il proprio benestare.

Una seconda differenza apparente tra la vita e un gioco riguarda invece gli obiettivi. Un gioco ha un obiettivo dichiarato, la vita no. Ovvero, anche volendo seguire le norme prestabilite, uno può sempre decidere per quale obiettivo volerle seguire. Dico che è una differenza apparente perché, in realtà, anche in un gioco uno può sempre decidere di avere un obiettivo personale. Negli scacchi si suppone che lo scopo è quello di assediare il Re. Ma in realtà nessuno mi vieta di giocare con un obiettivo distinto. Che succede se a me del Re non mi importa nulla e voglio salvare invece il massimo numero di pedoni? O farli diventare rigogliose regine? Immagina una situazione dove alla fine il tuo Re è assediato e sconfitto, ma per fare questo il tuo avversario ha dovuto sacrificare quasi tutti i suoi pedoni, mentre a te ne rimangono ancora molti. Chi ha vinto? Il successo e la vittoria dipendono sempre dal criterio di valutazione, e l’importante è averci il tuo, senza dover dipendere automaticamente dai criteri degli altri. Certo, se è una competizione ufficiale, non ti becchi la medaglia ma, per una piacevole qualità della vita, appunto, è più importante vivere in armonia con i propri valori personali che non accatastare coccarde variopinte. Ovvero, anche in quei casi in cui non abbiamo molto margine di decisione, possono al massimo obbligarci a seguire le regole, ma non a decidere i nostri obiettivi. Le regole spesso non dipendono da noi, gli obiettivi invece sono sempre una scelta personale.

Emiliano Bruner & Carmen Cremades

Investigación y Ciencia

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Investigacion y Ciencia 2023  Investigación y Ciencia era la versione spagnola di Scientific American, come Le Scienze in Italia. Per quasi mezzo secolo (era stata fondata nel 1976) è stata la principale rivista di divulgazione scientifica in spagnolo, ovvero nella seconda madrelingua più parlata al mondo. La multinazionale della editoria scientifica Springer Nature l’ha comprata qualche mese fa. E poi l’ha chiusa. Fuori. Non c’è più. File not found. Mezzo secolo di cultura cancellato di botto, con un click. Questo succede quando si fa mercato con la scienza. Questo succede quando si fanno affari con la scienza. La scienza come prodotto low-cost. La scienza fast-food. Bassi costi e cattiva qualità. Bulimia culturale e anoressia mentale. Io scrivevo, nella rivista, una sezione personale, da quasi dieci anni. Ad oggi, un totale di 47 articoli on-line, su antropologia e neuroscienza, su mente e cervello, su scienza e società. Spariti di botto. ¡Adiós! Oblio, con poco preavviso e senza nessun dialogo. Uno degli articoli descriveva come la scienza-mercato sta generando una pericolosa bolla economica monetarizzando la ricerca, prostituendo le riviste, trasformando autori e lettori in clienti. L’editoria scientifica si basa sempre di più su economia di scala, scarsa professionalità, movimento di denaro, interessi poco chiari, risorse usa-e-getta, prodotti di massa, filtri sociali, pochi scrupoli, e operazioni di marketing visuale. Lo spettacolo deve continuare. Un nuovo circo, stavolta in nome della scienza e del sapere. L’articolo in questione non è più disponibile. Come ormai non lo sono più nemmeno gli altri 46.

Catastrofe completa

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Jon Kabat-Zinn è uno dei referenti principali della meditazione dell’attenzione piena (mindfulness) almeno per due ragioni. La prima è che è stato uno degli autori che più è riuscito ad estrarre dalla religione buddista quei principi basici e trasversali ad ogni cultura che fanno della meditazione una pratica totalmente laica, un allenamento cognitivo, e una forma di vivere compatibile con qualsiasi società e con qualsiasi profilo individuale. La seconda è che è riuscito ad importare tutto questo nel sistema sanitario occidentale, dalla fine degli anni 70 negli Stati Uniti, poi gradualmente al resto del mondo. Ormai da quasi mezzo secolo il suo protocollo di otto settimane si applica negli ospedali in quelle situazioni che includono stress, ansia e depressione (psicologia y psichiatria), problemi psicosomatici (dermatologia, gastroenterologia, immunologia), e dolore cronico (oncologia, neurologia, ortopedia). La sua produzione letteraria è decisamente vasta, e i suoi libri sono, secondo me, una porta d’accesso chiara e diretta al mindfulness come pratica e come forma di essere. Nel 1990 pubblicò un tomo più che consistente per raccontare, con tutto il dettaglio, i principi e le pratiche non solo del mindfulness in generale, ma anche e in particolare del suo protocollo clinico, il programma di riduzione dello stress basato sul mindfulness (Mindfulness-Based Stress Reduction, MBSR). Racconta lui stesso che né gli amici né gli editori furono entusiasti del titolo: Full Catastrophe Living. Vivere la catastrofe completa. Apparentemente, una discutibile scelta di marketing. Ma la storia del titolo viene da lontano, e in particolare, da Zorba il Greco. Zorba balla come un estasiato, e quando gli chiedono se si sia mai sposato, lui risponde: certo che si, sono un uomo, ho avuto mogli, ho avuto figli … la catastrofe completa!!! Questa catastrofe completa è la nostra vita, che non va mai come ci piacerebbe, che si strascica tra insoddisfazioni e incertezze, che non cambia mai ma alla fine cambia sempre, e che viviamo in un perpetuo stato di allerta e di nostalgia, di conflitto e di instabilità. Dukkha: la sofferenza. La maledizione di una scimmia intelligente e, per questo, implicitamente triste. Il protocollo di Kabat-Zinn si usa negli ospedali nei casi in cui il problema supera una soglia convenzionale di gravità che chiamiamo “patologia”, una soglia clinica. Ma la “catastrofe totale” di Zorba è la vita di tutti i giorni, di tutti noi, chi più chi meno, nessuno ne è esente. Nei casi in cui i problemi sono gravi, la meditazione è un ottimo complemento per qualsiasi tipo di cura. Ma non c’è nessuna ragione per non applicare gli stessi principi e gli stessi metodi anche in tutti quei casi che non raggiungono quella soglia clinica che giustifica l’intervento medico. Prevenire è sempre meglio che curare. Qualcuno forse è libero da stress, preoccupazioni, dubbi, incertezze, paure, o scossoni emozionali? Bisogna aspettare un verdetto medico per voler migliorare la propria qualità di vita? La sofferenza ha gradi di espressione, ma non ha una soglia clinica reale, ed è sempre comodo avere le risorse per limitarla, per contenerla, o per evitarla. La meditazione è una pratica e una forma di vivere che riduce tutte le componenti nefaste della nostra personalissima catastrofe totale. Proporzionalmente: più tempo e energie si dedicano alla pratica, più evidenti saranno gli effetti. Stiamo parlando, in generale, di un allenamento della capacità attenzionale (a vantaggio di tutte le altre capacità cognitive), di un aumento della resistenza e resilienza allo stress (fisico e psichico), di un aumento della stabilità emozionale, e di un miglioramento delle relazioni sociali. Effetti che saranno proporzionali alla quantità di tempo e di energie investite nella trasformazione. Qualcuno avrà bisogno di un allenamento più consistente, qualcun’altro avrà solo bisogno di una regolazione sottile dei suoi processi mentali, ma tutti possono, in questo senso, migliorare la loro qualità di vita con una pratica che, alla fine, è orientata a sviluppare una conoscenza sincera di noi stessi. Dedichiamo tutti i giorni un po’ di tempo a farci una doccia e a lavarci i denti, ovvero a curare la nostra igiene corporale, e non si capisce come sia possibile che non dedichiamo lo stesso tempo alla nostra igiene mentale. Senza contare che, tristemente, problemi seri, fisici o emozionali, in genere prima o poi arrivano quasi sempre, e in quel momento è quindi preferibile essere già ben equipaggiati per poter limitare i danni, che non doversi arrabattare improvvisando competenze in piena tormenta. Insisto sulla questione di grado: limitare la sofferenza, non eliminarla. Non si tratta di passare anni in una grotta per arrivare a un livello di trascendenza mentale inossidabile, ma solo di introdurre una pratica quotidiana (come farsi la doccia o lavarsi le mani) per diminuire gli effetti nocivi dei nostri limiti psicologici. Diminuire. Proporzionalmente all’impegno, e alle necessità. Per questo la meditazione mindfulness, benché sia uno strumento eccellente nei casi clinici (è gratis e non richiede infrastrutture, solo richiede il proprio corpo, e motivazione), è anche e soprattutto una forma di vivere che può migliorare sensibilmente la qualità di vita di tutti. O almeno di tutti coloro che decidono di praticarla.

In questo senso la meditazione è una “pratica” nel senso che, in teoria, basta praticarla. Ad oggi abbiamo una incredibile quantità di fonti, tanto in letteratura come in internet, per poter intraprendere un cammino di studio e conoscimento della meditazione e dei suoi effetti. Ma, in realtà, essendo la meditazione un percorso centrato sull’esperienza, l’unica condizione necessaria è praticarla. La pratica, per se stessa, attiva il processo. Alle persone che iniziano il corso di otto settimane, Kabat-Zinn chiede solamente di eseguire il protocollo, punto e basta, senza giudizi, senza aspettative. E poi vedere quello che succede.

A livello tanto medico come psicologico, è interessante in questo caso notare la differenza tra “curare” e “sanare”. Nel primo caso si parla dell’eliminazione di una patologia. Nel secondo caso si parla di come le nostre condizioni, siano quelle che siano, possono influenzare il nostro benessere. La “sanazione” della meditazione è quel processo che ci insegna come relazionarsi con gli eventi, interni e esterni, riducendo il conflitto. Nella nostra catastrofe totale, ci sono molte situazioni che non dipendono da noi, ma sempre dipenderà da noi la forma di reagire davanti a queste situazioni, sempre decidiamo noi stessi la forma di relazionarci con l’esperienza. La differenza tra curare e sanare diventa abbastanza evidente quando ammettiamo, indiscutibilmente, che c’è chi sta bene incluso avendo un problema o una malattia, e c’è chi sta male anche quando non ha nulla.

Ad oggi, la meditazione conta con cinquant’anni di studi scientifici in neurobiologia, medicina e scienze cognitive. Nel 2013 Kabat-Zinn riedita il librone, aggiornandolo. Non cambia il titolo. Poi si traduce come sempre in molte lingue differenti, e gli editori continuano a non apprezzare il riferimento criptico alla vita di Zorba. In Italia, la riedizione di chiama Vivere Momento per Momento. Non so perché, gira anche una seconda versione di un’altra casa editrice. Seicento e passa pagine. C’è tutto. I principi, i metodi, le basi teoriche e quelle pratiche, e tutto il protocollo MBSR. E’ un investimento: seicento pagine, e si hanno tutte le informazioni su “cosa sia” il mindfulness, come si pratica, e quali sono le implicazioni. Poi uno può decidere cosa fare. E soprattutto cosa no.

Come meditare

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Come meditare (Pema Chodron) Pema Chödrön (New York, 1936) è tutto un riferimento del buddismo moderno, tanto per la sua traiettoria spirituale e istituzionale come monaca, che per la sua produzione letteraria. Il suo libro Come meditare è breve, diretto, sincero, semplice, ironico, completo. Estremamente pratico. Spiega il “come” tanto a livello logistico come psicologico. La sua meditazione è quella buddista, ovvero un processo di introspezione che va oltre l’attenzione piena (mindfulness), e si addentra nelle emozioni e nella spiritualità. In questo senso, si nota spesso nel testo il suo impegno costante verso i valori buddisti (bontà, amore, compassione …), in contrapposizione con i capitoli decisamente più applicati dove invece spiega principi, metodi e tecniche della pratica meditativa. La parte pragmatica del libro è davvero utile per chiunque pratica o sta iniziando a praticare meditazione, mentre quella spirituale è un’ottima occasione per poter fare una veloce ed efficiente incursione nelle basi motivazionali della tradizione buddista. La casa editrice Terra Nuova pubblica un riassunto del testo e dei suoi contenuti, come un breve vademecum della meditazione.

Antropodoxa

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Il sonno della ragione genera mostri, ma anche svegliarsi di botto può dare seri problemi. Racconto qui tre esperienze personali, sul fronte della ricerca scientifica. La prima è generale: ormai da qualche tempo molte riviste specialistiche, quando gli sottoponi un articolo da pubblicare, ti chiedono di che razza sei, quali sono i tuoi gusti sessuali o se fai parte di qualche interessante minoranza. In qualche caso, poi, rivelano sfacciatamente la ragione di tale morboso (e apparentemente illegale) interesse per la tua privacy: si darà precedenza di pubblicazione a coloro che, per colore, etnia o sessualità, si caratterizzano rispetto alla popolazione generale dei ricercatori. Sembrerebbe quindi che se sei maschio bianco eterosessuale vieni discriminato al momento di valutare la qualità del tuo lavoro. La discriminazione e la esigenza di condividere la mia intimità (dimmi tu se devo chiarire la mia sessualità per pubblicare un articolo) si fanno alla luce del sole, anzi, con un certo vanto di progressismo e moralità.

La seconda esperienza rimonta all’organizzazione di un congresso, poco tempo fa. Durante la preparazione dell’evento, uno degli organizzatori, puro mainstream americano, ci ricordò che gli inviti per gli oratori devono mantenere un equilibrio non solo di sesso, ma anche di razza e di altre diversità possibili, che includano disabilità e differenze individuali. Adesso, siamo sinceri, in un settore scientifico di nicchia, è spesso difficile trovare relatori sufficienti per le conferenze, figuriamoci mettersi a discriminare per forme e colori. Qualche giorno dopo, lo stesso organizzatore ci invia la sua lista personale di proposte, scusandosi perché alla fine non aveva considerato nessuno degli equilibri da lui menzionati, e invitandoci a fare di meglio.

L’ultima esperienza è fresca. Mi chiedono di scrivere un articolo per una famosa rivista di evoluzione. Però mi chiedono di scriverlo in collaborazione con un loro editore associato. Invitarti a scrivere un lavoro ma obbligarti a firmarlo con chi dicono loro non è proprio elegante, ma sopravvoliamo. L’articolo si basa su una revisione di uno studio famoso degli anni 80, trent’anni dopo. Dalla prima versione del manoscritto, decidiamo di includere una foto storica dell’autore di quello studio (Phillip Tobias), e un’altra foto del padre della disciplina in questione, con la sua strepitosa collezione di fossili. L’articolo viene sottoposto a elaborazione durante quasi un anno, e rivisto tre volte da quattro revisori e un editore. Alla fine viene accettato, e tutti contenti. Arrivano le bozze di stampa per dare il visto buono alla pubblicazione, e la mia coautrice (l’editore associato imposto dalla rivista) decide di sospendere la pubblicazione, perché presentiamo due foto di ricercatori maschi, bianchi, e senior, violando il rispetto della diversità. Quelle foto sono state lì da un anno, in tutte le versioni dell’articolo, ce le abbiamo messe insieme, nessuno ha avuto nulla da ridire, ma lei decide di manifestare il suo dissenso solo adesso, quando il lavoro è ormai in pubblicazione. A me non piace affatto l’idea di eliminare le foto, e allora consultiamo gli editori, che non sapendo cosa fare raggirano il problema rivelando che una norma tacita della rivista non permette di pubblicare foto di persone, eccezione valida solo per i necrologi. Si scusano per averlo notato solo adesso, avendo gestito loro stessi tutto il processo di pubblicazione dell’articolo durante tanti mesi. Dopo la mia proposta di ritirare il lavoro (secondo me meglio una pubblicazione in meno che fomentare certe patologie sociali), accettano almeno di pubblicare la foto con i fossili, perché oltre alla persona (Ralph Holloway) si vede anche la collezione di reperti, e per questa ragione permettono quindi l’eccezione alla regola. L’articolo terminava dicendo che le informazioni scientifiche di trent’anni fa forse non sono più valide, ma quello che dobbiamo ancora riconoscere a quei pionieri è la grande esperienza, la professionalità, e l’impegno. Sempre durante le bozze di stampa, mi hanno anche fatto riscrivere questa parte (soprattutto cancellare la parola “impegno”), perché non si vuole dare l’idea che si stia difendendo … la meritocrazia! Non sia mai.

Tutto questo fa parte evidentemente di una trasformazione sociale più grande, dove l’incapacità umana di gestire la diversità passa da un eccesso a un altro, generando situazioni estreme, reazioni emozionali, e censure incastonate nel tessuto intimo di ogni momento storico. Vi invito a leggere questo articolo sulla deriva che stanno prendendo questi aspetti sociali nei settori scientifici: An Existential Threat to Doing Good Science. In un momento dove l’università è quasi solo un mercato di matricole paganti, dove la ricerca è dichiaratamente orientata a promuovere i finanziamenti e il circolo economico, e i ricercatori diventano clienti delle riviste che gli pubblicano i lavori, si fa sempre più evidente che la scienza è alla fine, come un po’ tutto, un percorso personale. Il resto è marketing, pubblicità, e salari da mantenere. Curioso, nel caso della rivista di cui sopra, che non si accettino fotografie di persone, quando la ricerca è fatta, inevitabilmente, dalle persone. Una rivista di evoluzione umana che preferisce evitare il lato umano. E paradossale che, avendomi proibito di pubblicare l’immagine di un grande pioniere della paleontologia,  mi avrebbero invece chissà permesso di pubblicare una foto del suo cranio.

Meditate, gente!

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Goleman Davidson 2017Daniel Goleman e Richard Davidson hanno dedicato cinquant’anni allo studio della mente, da un punto di vista umano e scientifico. Vengono dal tempio del Sacro Impero Americano, ovvero l’Università di Harvard, che negli anni settanta gli pagava mesi e mesi di viaggi in oriente, dottorati e postdottorati, per andare a scoprire stati alterati di coscienza, ovvero per andare a sfondarsi di droghe e esperienze profonde, dai riti sciamanici a quelli mistici. Goleman forse era più interessato agli aspetti antropologici, Davidson a quelli neurobiologici, fatto sta che poi sono tornati a casa e hanno dedicato mezzo secolo alla scienza della meditazione. Il primo si fa giornalista di un altro pilastro dell’Impero, ovvero il New York Times, scrivendo per decadi su scienza e psicologia. Diventa poi famoso per la sua proposta di una “intelligenza emozionale”. Il secondo monta un laboratorio di neuroscienza, e comincia a usare elettroencefalogramma, analisi biochimiche e tecniche di immagini cerebrali su monaci tibetani e meditatori di tutte le scuole e discipline. Insieme a tutta una serie di pionieri di quegli anni (come Jon Kabat-Zinn, Mathieu Ricard, Antoine Lutz e tanti altri), e appoggiati incondizionatamente dal Dalai Lama, fondano le basi delle neuroscienze contemplative e, di passo, il Mind & Life Institute. Da mezzo secolo raccolgono dati sugli effetti della meditazione (o, meglio, delle differenti forme di meditazione), e pubblicano i risultati tra riviste scientifiche d’impatto e libri di divulgazione. Già quindici anni fa c’erano risultati sufficienti per poter pubblicare lavori di revisione sugli effetti della meditazione sul cervello sulle riviste del mainstream accademico. Nel 2017, Goleman e Davidson hanno pubblicato “Altered Traits“, un libro che riassume questo mezzo secolo di scoperte. Il titolo insiste su un fatto che Goleman prende come meta del processo, una meta in genere piuttosto utopica ma non per questo irraggiungibile: raggiungere, con anni di pratica, una serie di cambiamenti stabili nell’organizzazione cerebrale. Infatti, la meditazione è come lo sport: il risultato è proporzionale all’impegno e al tempo dedicato, e se uno poi smette il muscolo di affloscia. In genere, in chi pratica meditazione, cambiamenti biochimici si osservano subito, dopo minuti, cambiamenti metabolici in qualche settimana, e cambiamenti cerebrali in un paio di mesi. E questi cambiamenti vanno aumentando man mano che l’allenamento continua. Si identificano cambiamenti più che sostanziali nella capacità di resistenza e recupero (resilienza) allo stress fisico e psicologico, nella capacità attenzionale, nella gestione emozionale e empatica, e nella capacità di autonomia rispetto agli eventi che implicano la storia personale. Tutto questo a livello tanto comportamentale come cerebrale, e loro lo raccontano mischiando evidenze scientifiche e vita vissuta, accademica e personale. Insomma, un libro che viene bene non solo per conoscere la scienza della meditazione dal punto di vista teorico e della ricerca sperimentale, ma anche per conoscerne la storia, i personaggi, e gli eventi, di questo mezzo secolo in cui, mentre la pratica meditativa soffriva ancora di un alone esoterico e fricchettone, qualche illuminato portava avanti un discorso differente. Davvero un bel libro, soprattutto per chi ha un certo interesse per le scienze cognitive. Unica pecca: un esagerato marchio imperiale Made in Usa. I riferimenti alla Grande Potenza, intellettuali ed emozionali, sono costanti, così come l’epopea dei suoi Eroi. Sintomatico che, in genere, le scoperte e le ricerche fatte in casa vengono presentate menzionando nomi, cognomi e università coinvolte, mentre quelle d’oltreoceano spesso scivolano con “alcuni ricercatori europei”, e il resto è storia, quella storia che, come sempre, raccontano i vincitori. Bisogna dire che, in un certo senso, è anche giustificabile: negli Stati Uniti, Harvard negli anni 70 pagava gli studenti per perdersi in India, mentre altre università aprivano laboratori di neuroscienza contemplativa, e i primi ospedali battezzavano i loro dipartimenti di mindfulness. Cose che in gran parte di Europa sono arrivate trentanni dopo, e in qualche caso (non faccio nomi) sono ad oggi ancora impensabili. Quindi, in un certo modo, l’investimento culturale dell’Impero bisogna pure riconoscerlo. Anche se, dobbiamo ricordarlo, chi ha seriamente stimolato l’interazione istituzionale tra neuroscienza occidentale e filosofia orientale è stato Francisco Varela, un cileno che lavorava a Parigi. Certo, essendo passato prima comunque per Harvard.

Non conosco la traduzione italiana del libro. Come sempre, la copertina lascia a desiderare: la traduzione del titolo è oscena e frutto di una squallida premeditazione (si cerca di vendere il prodotto a soggetti vulnerabili come cura per l’anima, quando in tutto il libro si spiega che le applicazioni cliniche sono casi molti specifici), una grafica lamentabile, e giocando scorrettamente sul nome famoso di Goleman, quando in realtà la parte di ricerca è tutta di Davidson, di cui vi invito a visitare la web Healthy Minds. Qui altri post su meditazione e mindfulness, un articolo mio (in spagnolo) su meditazione e neuroscienza, e un altro sui … superpoteri del yoga!

Clima mentale

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Riscaldamento mentale 2022

Sta aumentando, inevitabilmente, la preoccupazione per la salute mentale delle nuove generazioni, e il dibattito dilaga, senza troppe garanzie di competenza o di coerenza, tra scuole, ministeri, autobus e  birrerie. Giornalisti, genitori, maestri e  studenti si improvvisano psicologi, sentenziando e decretando su concetti che non conoscono, utilizzando termini di cui ignorano le definizioni, e arrivando a conclusioni basate su una risposta più emozionale che analitica, fondate su dati di cui non sempre controllano l’origine o il significato. Spesso, addirittura gli stessi psicologi si improvvisano psicologi, ma questa è un’altra storia. Questa preoccupazione sociale per la salute mentale è del tutto lecita, e perfettamente giustificata, quindi ben venga una allerta e una richiesta di attenzione al problema. Rimane comunque da vedere se il supposto crollo culturale e psicologico delle nuove generazioni sia davvero reale e associato a fattori e caratteristiche di questi tempi, o se sia invece solamente la rivelazione di una carenza che esiste dalla notte dei tempi, una limitazione delle nostre capacità mentali e culturali, implicita nell’essere umano, una condizione e una situazione che non è cambiata negli ultimi 200.000 anni, ma che adesso si sta cominciando a rilevare, un po’ per sensibilità e capacità di diagnosi, un po’ per gli introiti del mercato farmacologico associato.

Fra le varie questioni che accendono gli animi c’è il ruolo della scuola, tra chi dice che le istituzioni educative si devono preoccupare della crescita personale delle giovani menti in formazione, e chi invece suggerisce di limitarsi all’istruzione e al conoscimento. Uno dei fattori fondamentali che in teoria starebbe alla base di questa dicotomia è l’attenzione allo sviluppo emozionale, che nel primo caso sarebbe una chiave cruciale sia per la crescita individuale che per l’apprendimento, mentre nel secondo andrebbe lasciato alle famiglie, alla società, e al vivir comune. Come sempre, il dibattito spesso si svolge tra posizioni estreme, senza considerare combinazioni intermedie. Ma quello che preoccupa di più è forse il fatto che si dia per scontata la separazione tra la sfera emozionale e quella della crescita formativa. Il dibattito tra sviluppo emozionale e sviluppo cognitivo è, evidentemente, un sintomo delle scarse conoscenze che sono alla base delle posizioni che si difendono sul tavolo della discussione. Il controllo e la capacità della gestione emozionale di un individuo fanno parte del pacchetto cognitivo di una persona, e non sono un modulo a parte. Le abilità cognitive sono una serie di funzioni che, sebbene distinguibili a livello concettuale e incluso biologico, generano poi  un sistema unico dove tutte le componenti si influenzano l’una con l’altra. Assurdo pensare che la gestione emozionale non abbia nulla a che fare con la capacità di apprendimento, o che entrambe siano indipendenti da autocontrollo o memoria. Ma soprattutto, a parte le reciproche influenze, queste capacità hanno anche delle basi che sono ineluttabilmente condivise. Il termine “intelligenza generale” per esempio viene spesso usato per riferirsi alla capacità di gestire insieme diversi domini cognitivi. E il termine “attenzione” si riferisce alla capacità cosciente di mantenere un processo cognitivo sostenuto nel tempo e nello spazio indipendentemente da stimoli competitivi, interni e esterni. Senza capacità di coordinazione (intelligenza generale) e di continuità (attenzione) le diverse sfere cognitive (gestione emozionale, ragionamento fluido, memoria, abilità linguistica o analitica, capacità spaziale e percettiva, etc.) non possono dare grandi risultati. Per esempio, posso avere una eccellente capacità di calcolo o linguistica, ma mi servirà a poco se riesco a sostenerla solo per pochi secondi, se non riesco a memorizzare i suoi risultati, o se si associa con una mancanza di controllo emozionale o sociale. Una scarsa capacità di integrazione o di attenzione porta quasi sempre a quella nefasta conclusione che chiamiamo “sofferenza”, ovvero la causa della pandemia di stress, ansia e depressione che conduce, allo stesso tempo, a sprecare la propria vita e a una scarsa capacità (o volontà) di apprendimento scolastico. Sembra quindi davvero superficiale voler separare lo sviluppo cognitivo da quello emozionale, essendo il secondo una delle tante componenti del primo. Questo non vuol dire necessariamente che lo sviluppo emozionale debba essere incluso nei programmi scolastici, perché in realtà potrebbe anche difendersi proprio la posizione contraria: con una opportuna formazione cognitiva, potrebbe non esserci bisogno di dover poi dover metter mano alle emozioni, che avrebbero automaticamente gli strumenti (e.g., la capacità attenzionale) per gestirsi da sole.

In tutto questo, troviamo una analogia abbastanza interessante: le statistiche dei giornalisti suggeriscono che, nelle nuove generazioni, le due preoccupazioni principali sono la salute mentale e quella planetaria. Ovvero, ci si preoccupa per i cambiamenti cognitivi e per quelli climatici, e la sensazione generale è che non stiamo riuscendo a gestire decentemente nessuno dei due problemi. A parte il fatto che i due aspetti si fondano, a livello di reazione pubblica, su risposte emozionali e in genere poco informate, ci sono dei parallelismi cognitivi tra i due fronti, che richiedono in entrambi i casi un finale decisivo: un cambiamento basato sull’azione. Ovvero, sia quella che sia la strategia o la conclusione, dopo l’analisi deve seguire un cambiamento concreto negli aspetti coinvolti, altrimenti qualsiasi cammino sarà solo un esercizio di stile, senza conseguenze. Il ché ci porta a dover cercare di rispondere, anche solo approssimativamente, a due questioni necessarie.

Una prima considerazione, ovvia ma impopolare e cinica, è domandarsi se e quanto le persone o le istituzioni sono realmente capaci di un cambiamento, in entrambi i casi. A livello ambientale, il nostro sistema sociale, culturale ed economico, integralmente strutturato su un capitalismo feroce e compulsivo, già non permette di prendere molte decisioni che, sebbene sensate, sono strutturalmente impossibili da eseguire. A livello cognitivo, lo stesso sistema compulsivo, insieme a vincoli biologici (e inesorabili) della nostra mente, decreta che in molti (o moltissimi?) casi certi cambiamenti non sono, semplicemente, possibili. E bisognerà quindi passare per altre soluzioni. Ovvero, in entrambi i casi dobbiamo implicarci in un miglioramento, ma essendo coscienti delle limitazioni di un sistema già programmato a livello evolutivo e terribilmente viziato a livello culturale.

La seconda questione è ancora più impopolare della prima, e decisamente più cinica: nel caso del clima e della salute mentale tutti vogliono un cambiamento ma … quanti sono disposti a cambiare? Tutti vogliono soluzioni e un miglioramento della situazione, ma quanti sono disposti a dover cambiare la loro stessa vita, le loro priorità, le loro posizioni, o a mettere in discussione le loro scelte e le loro necessità? Probabilmente, pochi. Forse pochissimi. Criticare una situazione, lamentarsi di come lo fanno gli altri, incluso riconoscere le proprie sofferenze, è molto più facile che ristrutturare la propria esistenza, dubitare delle proprie certezze, o rompere la catena di emozioni e reazioni impulsive che generano il problema di fondo. Un cambiamento reale spesso implica fare qualcosa contrario alle proprie convinzioni o ai propri criteri, agire nel senso opposto alla propria volontà o alle proprie idee, uscire con determinazione dalla sfera delle proprie sicurezze. Come diceva una vignetta con un tizio seduto sul lettino dello psicologo: mi sembra più facile soffrire che cercare di risolvere i miei problemi.

Introdurre il dibattito sulle emozioni nelle scuole e nei ministeri è stato un passo fondamentale, come lo è stato riconoscere i problemi ambientali a scala globale, dedicare tempo alla formazione sui principi basici dell’igiene, o permettere la libera espressione con una edulcorata democrazia. Ma, una volta che il passo è stato fatto, bisogna cercare di portare avanti la missione con una strategia sensata e soprattutto funzionale allo scopo, realista e sincera. E, considerando che le istituzioni arrivano sempre dopo, aggiudicandosi (con una estrema ipocrisia) trasformazioni che in realtà sono in primo luogo sociali, questa missione possiamo solo portarla avanti individualmente. La pandemia di stress, ansia e depressione che vediamo sulle nuove generazioni ha le sue radici nella pandemia di stress, ansia e depressione delle generazioni precedenti. Quanti giovani, per migliorare questa situazione, sono disposti a cambiare il loro modello di vita, e iniziare un cammino in palese contrasto con le loro pulsioni e con le loro convinzioni? Quanti sono in grado di farlo? Quanti genitori sono disposti a fare lo stesso? Quanti sarebbero capaci di farlo decentemente? Quanti docenti sono pronti a riconoscere le loro carenze e ad agire di conseguenza? Quanti saprebbero ricondurre le loro capacità professionali? Sono domande impopolari, perché ci ricordano i nostri limiti. Ma, senza quelle risposte, qualsiasi proposta, movimento o decisione, a livello tanto personale come istituzionale, può risultare vana, o addirittura controproducente. Ci si può indignare o preoccupare, ma poi bisogna agire. Su sé stessi. Altrimenti non funziona.

Caron dimonio

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Italia, encore. Dopo più di venti anni, torno in Sardegna. Terra magica. Terra incredibile. Terra unica. Gli spazi, i colori, l’odore del mirto, terra e mare, mare e terra, e gente di cuore. A parte le strade eternamente sgangherate, non sembra, di fatto, di stare in Italia. Isola, in tutti i sensi. Testimone di mille culture, ma tutte di passo, nessuna si ferma. La nobile ed elegante solitudine di una terra che appartiene solo al mare. Ma questo mare, per arrivarci, bisogna attraversarlo, ed è qui che ti vedi obbligato a pagare pegno alla squallida e corrotta cultura italiana. Dalla Spagna, non ci sono quasi linee aeree per la Sardegna (curioso e decisamente sospetto, considerando il potenziale turistico), e sei praticamente costretto a passare per un traghetto. Un traghetto che, nel Mediterraneo, soffre il monopolio del nome Grimaldi. Inizia la traversata, dodici ore tra Barcellona e Porto Torres.

La cabina te la fanno pagare cara, ma te la consegnano quasi due ore dopo che sei partito, e ti chiedono di liberarla due ore prima dell’arrivo. Quando finalmente abbiamo accesso alla cabina, scopriamo (noi e altre trecento famiglie) che non è stata preparata. Una folla di turisti sperduti e carichi di bagagli cerca di rimediare lenzuola, asciugamani e carta igienica, tra porte che non si aprono e una generale assenza di equipaggio. Io riesco nell’intento solo all’andata, ma non al ritorno. I corridoi della nave sono tutti uguali, un labirinto stagno a prova di bussola, non ci sono cartelli o indicazioni sufficienti, e la gente si perde come in una sala degli specchi, trascinando valige, bambini, e bestemmie in una variegata lista di lingue e dialetti. Lo spettacolo è dantesco, anche perché i corridoi sono pieni di quello che i marinai hanno velocemente tirato fuori dalle cabine per una pulizia affrettata e superficiale, bottiglie vuote, cartacce, lenzuola sporche, tutto gettato al suolo in un ammucchio selvaggio e coronavirico. Mi chiedo, se questo è il procedimento, che tipo di pulizia o di disinfezione hanno potuto effettuare nei bagni o nei letti. Sul mio letto, dove dovrò dormire, c’è l’impronta di una scarpa. A fronte di qualche ammirabile eccezione, il poco equipaggio rintracciabile non è molto propenso a collaborare. Ogni tanto incontri piccoli branchi di lupi di mare che corrono indaffarati in qualche attività frenetica, non possono farti caso, sono tutti molto giovani, parlano un napoletano stretto e indecifrabile, e portano sulla pelle simboli e medaglie di rango e provenienza, effigi di coltelli e di bandiere, i codici delle origini e dei destini. Volendo essere un poco lombrosiano, siamo su un traghetto, ma in qualche sguardo la sensazione è quella di un gommone. La reception è presa d’assalto, ma gli addetti, protetti dietro a una vetrina, fanno quel che possono, e un poco meno. La megafonia ripete le stesse informazioni mille volte, in italiano e in uno spagnolo improvvisato, sgrammaticato, zeppo di errori e pieno di italianismi da turista. Nella nave molti servizi sono chiusi o hanno orari limitati, ad eccezione delle sale da gioco, aperte 24 ore come in qualsiasi galeone che si rispetti. Almeno secondo i cartelli, l’ozio è ancora garantito dal nome dello Smaila’s Club. Ovviamente, manco a dirlo, non c’è traccia di nessuna norma pandemica. Al contrario, la gente si ammassa, si spinge, si mischia, come da tradizione scafista.

Quando mi sveglio la mattina, nella cabina, trovo un messaggio sul mio cellulare: in mezzo ai flutti, mi sono connesso a una misteriosa rete internazionale che mi ha succhiato 60 euro. Ho fatto ricorso all’azienda telefonica spiegando che è una truffa, spero di recuperarli. É curioso che, di tre cellulari che avevamo con noi, solo il mio è stato agganciato. Ovvero, solo quello che abbiamo dovuto dare alla Grimaldi per comprare i biglietti. Il consueto benvenuto in terra d’Italia.

Lo sbarco è poi l’apoteosi. L’apocalisse. I megafoni danno il via alla ressa finale, ma senza dare nessuna informazione sul come e soprattutto sul dove. Tutte quelle persone che all’arrivo vagavano come zombi perduti tra i labirintici corridoi cercando cabine e asciugamani, carichi di bagagli e di bambini, tornano ad ammucchiarsi tra passaggi scivolosi, scalette instabili e cunicoli senza uscita. Con una differenza: adesso sono stanchi, sudati, e decisamente più aggressivi. Centinaia di persone, trascinando borse e borsoni, che cercano disperatamente le uscite per arrivare ai parcheggi nella stiva. E non c’è forma di sapere dove andare. L’equipaggio è sparito. Non ci sono cartelli. Le porte, pesantissime e calibrate per il braccio marinaio, sono chiuse. Noi quasi ci lasciamo un piede nel tentativo di aprirne una mantenendo in equilibrio zaini e marmocchi. In molti casi le scale o i corridoi portano a spazi senza uscita o accessi bloccati, e la folla si intasa senza soluzione di continuità, tra chi cerca di entrare seguendo la marea e chi cerca di uscire dallo stesso vicolo cieco, trappola mortale.

All’uscita, già di ritorno in patria spagnola, mi fermo fuori dal barcone per vedere la condizione del nostro piede aggredito dal portone di acciaio, ma una guardia del porto catalano mi dice di spostarmi, per ragioni di sicurezza. Gli faccio notare che è assurdo parlare di sicurezza quando lì dentro c’è un circo impazzito di gente ammassata, e mi dice che mi capisce perfettamente: c’è passato anche lui, e non lo consiglierebbe a nessuno.

La domanda è: come è possibile? Come è possibile che una azienda che si dedica espressamente a qualcosa lo faccia così male? Come è possibile poi che questo sia permesso? Come è possibile che questa cattiva gestione, probabilmente illegale e decisamente poco sicura, sia addirittura associata a una assenza di competizione che è quasi un monopolio? Chi lavora nel settore dice che c’è di mezzo la camorra, ma in realtà questo non spiega nulla: la criminalità organizzata si chiama “organizzata” perché sa come organizzarsi, e qui evidentemente la capacità di organizzazione non c’è.

Al ritorno, prima dell’imbarco, c’è un controllo e una ispezione, macchina per macchina, prima della polizia italiana, poi della Grimaldi. Davanti a noi, un auto con dentro tre arabi, la targa mezza cancellata, e un carico amorfo e smisurato sul tetto del veicolo, malamente agganciato con cordacce e pezze rimediate. Allego documentazione (sopra). La creatura, un cyborg fatto di umani, metallo y stracci, ricorda quelle larve di insetti (crisope) che si camuffano sotto un ammucchio di detrito e polvere, portandoselo pesantemente addosso in un equilibrio goffo e decisamente instabile. Sicurezza zero. Ma, nel paese delle amministrazioni cavillose, eterne e assenti, è tutto regolare, e la creatura accede, con il beneplacito pubblico e privato, al ventre del barcone.

Insomma, c’è poco da fare, per arrivare in Sardegna, purtroppo, bisogna ancora passare per l’Italia. Bisogna pagare il pegno al Bel Paese. Ma poi ti lasci il barcone alle spalle, e arrivi in questa terra magica: l’odore del mirto, terra e mare, mare e terra, e gente di cuore.

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[A Diosa]