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In Spagna di tanto in tanto scoppia uno scandalo quando si scopre che qualche politico ha contraffatto il proprio curricolo professionale e accademico. Niente che non si conosca anche in Italia. Titoli di laurea falsi, diplomi di master inesistenti, e tutta una serie di medaglie amministrative e istituzionali che si mettono sulla carta alla leggera, tanto poi nessuno controlla. Poi si scopre che un titolo di master si può comprare in giro per poche centinaia di euro, e scoppia lo scandalo dentro lo scandalo. Ovviamente la cosa preoccupante non è che la persona non abbia le competenze garantite da quel titolo, ma il fatto che sia un imbroglione, un maneggione immorale, uno che falsifica documenti per cercare un vantaggio personale. Se ha falsificato il suo curricolo o se ha comprato un titolo sottobanco non avrà nessuna remora ad accettare e promuovere inguacchi e corruzioni di tutti i tipi. Ma anche se questo aspetto sembra chiaro e indiscutibile, poi però questi scandali contribuiscono ad aumentare il falso mito delle garanzie accademiche: se non hai il master, non sei capace. Lasciamo stare il fatto che un titolo accademico non garantisce il valore morale, e saranno sicuramente in molti quelli che, a fronte di un titolo legittimo, poi hanno principi meschini o criminali. Ma quello che non è ancora affatto chiaro nei settori esterni al mondo universitario è che un titolo o un diploma non danno nemmeno nessuna garanzia sulle capacità o sulle conoscenze di una persona. In molti ancora, secondo un principio indiscutibilmente provinciale, cambiano il loro atteggiamento verso qualcuno appena sanno che ha un master, un dottorato, o che addirittura “insegna all’università”. I genitori sfoggiano i titoli dei pargoli, i vicini li commentano sul pianerottolo, e i giornalisti continuano ad etichettare la gente in funzione del grado di istruzione. E in molti si stupiscono quando scoprono che tal dei tali, apparentemente un inetto, un incolto, o un ruffiano, ha un titolo di studio o addirittura un corso all’università. La correlazione tra livello educativo e capacità individuali è stata sempre floscia, ma probabilmente non è stata mai tanto debole come in questi anni. La massificazione dell’istruzione è un passo necessario in una democrazia, ma bisogna accettarne i limiti. E, in primo luogo, c’è quella legge universale ed eterna che sancisce – non facciamo finta di non saperlo – l’inversa relazione tra quantità e qualità.
Aumentare la quantità di laureati necessariamente decrementa il valore formativo di quei percorsi accademici. Le ragioni sono diverse, e includono i limiti sociali e psicologici (non tutti vogliono o possono investire la stessa quantità di impegno e dedicazione a una professione) a quelli economici (per aumentare il numero di “clienti” devo generalizzare il “prodotto”, e soprattutto renderlo … più masticabile). Ad oggi la maggior parte dei corsi di laurea hanno un ruolo che equivale, culturalmente e socialmente, a quelle che venti anni fa erano le scuole superiori. Ovvero, con la debita proporzione storica, lo studente universitario medio ha un grado di maturità, motivazione e professionalità analogo a quello di uno studente di liceo del secolo scorso. Con la differenza non irrilevante che è maggiorenne, e quindi può tornare a casa dopo mezzanotte, guidare un auto, o comprare alcol. Molti master (possiamo discutere sulle percentuali, ma secondo me la situazione è tragica) sono solo strumenti istituzionali finalizzati a raccogliere denaro, a dar lavoro ai docenti e giustificarne le nomine, e a garantire un titolo agli studenti che paghino il dazio. Non hanno programmi di formazione robusti, spesso sono corsi abbastanza improvvisati, hanno contenuti generali, e di certo non garantiscono nessun tipo di selezione: se paghi, ti porti a casa il certificato. Ovvero, ci stupiamo del politico che ha “comprato” il master sottobanco, ma non di quello che lo ha comprato direttamente allo sportello universitario. A volte l’unica differenza è che il secondo lo ha pagato più caro, perché il certificato originale costa di più di quello pirata.
Sulla docenza, poi, la gente non sa che molte università stanno facendo cassa mettendo a insegnare per due soldi chiunque sia disponibile a farlo, basta alzare la mano. L’istituzione si porta a casa le matricole degli studenti, il docente guadagna qualche spiccio per pagarsi la pizza e sfoggiare la cattedra posticcia, e lo studente ha un altro corso che può fare senza troppo impegno, senza togliere tempo al muretto delle reti sociali e al suo grooming giovanile. Curiosamente, per vantare un titolo di dottore serve un riconoscimento legale, ma per utilizzare quello di professore non è necessario alcun titolo ufficiale, perché a livello linguistico il termine si riferisce a colui che ha una qualifica professionale generica, ovvero che esercita una professione.
Adesso, tutto questo di per sé non è necessariamente né buono né cattivo, e sforzandoci di essere oggettivi potremmo non sapere se sia un segno di progresso o di collasso. Forse fa parte di un cammino più ampio che, localmente, non capiamo e ci sembra assurdo. Del resto, tutte le generazioni hanno sempre vaticinato il degrado delle generazioni successive, e spesso (non sempre) hanno avuto apparentemente torto. Ma comunque è una situazione che bisogna conoscere, e che non si può far finta di ignorare lasciando in circolazione vecchi cliché anacronistici che associano la carriera accademica al valore individuale o culturale. Professori, ricercatori, dottori e studenti rappresentano campioni aleatori della popolazione globale di una società, con gli stessi valori e con gli stessi limiti di tutti gli altri primati umani. Certo è che il cambio di paradigma educativo deve comportare necessariamente un cambio delle aspettative. Manco a dirlo, a parte il probabile logorio culturale associato a questa strategia, anche a livello di mercato il danno potrebbe essere considerevole, abituando la società a posti di lavoro instabili e sottopagati, e a una preparazione professionale superficiale e rimediata. Ma come sempre, se tutti sono d’accordo (o almeno il cinquanta per cento più uno) la situazione è perfettamente democratica, e non è giusto alterarne il corso.
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