La democrazia e il capitalismo condividono una base fondamentale: si reggono sulla massa, sulla folla, e sul potere di convincerla, di manipolarla. In democrazia siamo tutti uguali davanti al peso del voto, così come il capitalismo non fa distinzione sul proprietario del denaro. Il principio, semplice e diretto, è convincere quante più persone possibile di qualcosa, per ottenere il favore della loro scelta, sotto forma di voto o di pecunia. E la massa, per definizione statistica, è mediamente mediana. Ovvero, politica e economia dipendono dai valori centrali, e non da quelli estremi. Questa stabilità da un lato può tamponare contro i possibili eccessi negativi, dall’altro preclude in genere il progresso verso situazioni più complesse e organizzate. La media ha una preparazione media, una conoscenza media, una prospettiva media, una capacità di previsione media, una capacità di analisi media: non appoggerà e non capirà e non apprezzerà, in media, una prospettiva che esce dagli schemi medi. La democrazia e il capitalismo devono, per forza di cose, dar retta alla media, alla distribuzione centrale, che essendo centrale non può arrivare a comprendere tutte quelle alternative che medie non sono. La società democratica e capitalistica nel migliore dei casi non arriverà nemmeno a notare o a considerare alternative fuori della norma, nel peggiore le perseguirà, siano esse nocive o vantaggiose. Se una proposta, politica, economica o culturale, va oltre la norma della massa, non convince, non si può nemmeno arrivare a capire, e se non si capisce non si compra, o non si vota. E questo apre ovviamente alla prostituzione politica o a quella culturale. I partiti, invece di proporre le loro alternative in base alle loro competenze e alle loro ideologie, sondano le aspettative degli elettori per poi offrirgli quello che gli elettori si vogliono sentire offrire. Invece di basare la campagna su una proposta, la fondano su una promessa, disegnata non in base alla capacità politica e ideologica ma a quella strategica delle statistiche e delle vendite. L’economia delle imprese e delle multinazionali segue lo stesso principio, anche se in questo caso il processo fa parte della sua stessa natura: se il popolo chiede zella, gli diamo zella. Garante il diritto di scegliere.

E la cultura non trova miglior rimedio che unirsi al banchetto, tra lucro e necessità, trasformando il pubblico in cliente, e la formazione in intrattenimento. Questo mese hanno dovuto rivedere la strategia di una mostra sul corpo umano, perché più d’uno sveniva quando appendevano gente viva coi ganci al soffitto, trapassandogli la pelle tra schizzi di sangue e lacerazioni multiple per mostrare l’incredibile resistenza della nostra tuta organica. La scienza diventa marketing, e con la scusa della divulgazione vende invece solo spettacolo. Fino a che punto è lecito fingere di spacciare cultura con lo scopo di vendere il prodotto? Quando si decide di vendere spettacolo usando la scienza come falso pretesto bisogna poi accettare le conseguenze, soprattutto quelle a lungo raggio, che determinano la capacità culturale di una società, e che ne determinano i suoi limiti. Senza contare che il principio dell’intrattenimento e dello stupore comporta un pericoloso rischio di retroalimentazione: il circo, sia fatto di politica o di cultura, di gladiatori o di donne barbute, ha l’obbligo di stupire ogni volta più della precedente. E lo spettacolo, succeda quel che succeda, deve sempre e comunque continuare.

“Venghino si’ori venghino! Entrino si’ori entrino! … che più gente entra e più bestie si vedono …“.